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SMART WORKING E DIRITTO ALLA D...

SMART WORKING E DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

SMART WORKING E DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

Una delle parole che tutti hanno imparato a conoscere a causa della pandemia è smart working, altresì definito lavoro intelligente o agile.

Lo scopo del cd lavoro intelligente consiste nell’incrementare la produttività e conciliare i tempi di vita con quelli del lavoro.

Nel nostro ordinamento il lavoro intelligente è regolato dalla legge del 22 maggio 2017, n. 81

L’art. 18 della l. 22 maggio 2017 espressamente permette di effettuare la prestazione lavorativa “senza vincoli di orario o di luogo di lavoro”.

Esso, inoltre, in base all’art. 19, è frutto di un accordo volontario in forma scritta tra datore di lavoro e lavoratore.

Dunque le caratteristiche fondamentali di tale forma di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato avrebbero dovuto essere la volontarietà e il superamento di una rigida determinazione spaziale e temporale nell’esecuzione della prestazione anche dal punto di vista del calcolo della retribuzione poiché l’art. 18, laddove prevede che l’attività possa essere determinata “anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi”, lascia intendere chiaramente la possibilità di stabilire il compenso senza considerare l’effettivo tempo impiegato. Invero tale prospettiva ad oggi è rimasta lettera morta poiché l’intero sistema stabilito dalla contrattazione collettiva aggancia la retribuzione del lavoratore subordinato al tempo impiegato.

Queste, dunque, erano le intenzioni del Legislatore. A gennaio 2020, quindi distanza di due anni e mezzo e poco più dalla sua entrata in vigore, lo smart working costituiva una “forma di nicchia” dell’esecuzione del contratto di lavoro subordinato con circa 500.000 lavoratori che avevano sperimentato tale forma di esecuzione del rapporto di lavoro.

E’ inutile ricordare cosa sia successo da fine febbraio 2020 in poi.

Da quel momento lo smart working è diventata quasi l’unica forma di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, eccezion fatta per quelle mansioni produttive eseguibili soltanto “in presenza”.

Già dalla descrizione sin qui operata degli art. 18 e 19, molti lavoratori si saranno resi conto che in realtà, in questi mesi, l’applicazione del cd lavoro agile è stata ben diversa dalla cornice normativa sin qui descritta.

Il lavoratore ha semplicemente rispettato gli orari di lavoro non nel normale luogo di lavoro, bensì dalla propria abitazione e non per sua scelta, ma per imposizione del Legislatore per motivi di salute pubblica. Lo smart working, infatti, ha perso la sua caratteristica di volontarietà, ma è stato imposto sia nel pubblico che nel privato al fine di applicare il distanziamento sociale.

Ma non solo. Piuttosto che favorire e conciliare la vita sociale ed il riposo, attualmente lo smart working, così come è stato declinato durante la pandemia, è andato ad erodere il tempo libero anziché aumentarlo senza nemmeno ottimizzare la resa del tempo dedicato al lavoro, essendo il lavoratore interrotto da miriadi di mail, conference call e riunioni tramite piattaforme virtuali.

Questi effetti collaterali sono stati causati da una sorta di “obbligo implicito” del lavoratore di essere sempre connesso e, quindi, disponibile in qualsiasi momento.

Il “luogo di lavoro” è ancor più diventato in questi mesi difficili il web, ma le attuali tecnologie permettono una navigazione 24 ore su 24 con, come corollario, una dilatazione degli orari di lavoro alla quale non ha fatto seguito alcun incremento della retribuzione.

Invero come si analizzerà brevemente è ricavabile nel nostro ordinamento un vero e proprio diritto alla disconnessione declinabile nel diritto del lavoratore a non essere raggiungibile e contattabile dal datore di lavoro e di dedicare esclusivamente il proprio tempo libero alla vita familiare e sociale senza alcuna intromissione di carattere lavorativo.

Innanzitutto visto che questo breve scritto orbita intorno allo smart working, pare opportuno evidenziare che il già citato art. 19 della l. 22 maggio 2017 n. 81 espressamente prevede che l’accordo scritto che definisce le modalità di smart working debba stabilire “i tempi di riposo del lavoratore nonchè le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore”

Dunque viene demandato all’accordo individuale i tempi in cui il lavoratore ha diritto a non essere contattato dal proprio datore.

La norma, a giudizio di chi scrive non è completamente esaustiva. Innanzitutto pare non felice la scelta di delegare totalmente all’accordo individuale tenuto conto della nota disparità di forza contrattuale che sussiste tra datore e prestatore di lavoro.

Tale vuoto normativo sarà probabilmente colmato sempre di più dalla contrattazione collettiva di carattere aziendale. Ad esempio il contratto aziendale Siemens del 6 giugno 2017 prevede che anche nella modalità smart working l’orario lavorativo settimanale non possa superare le 40 ore e possa essere effettuato in maniera spezzata durante la medesima giornata lavorativa. Un altro esempio è il contratto collettivo aziendale di Campari sottoscritto il 18 maggio 2018 nel quale è previsto che la stessa piattaforma utilizzata dallo smart worker per lavorare da remoto emetta un alert invitandolo a disconnettersi una volta superato l’orario di lavoro normale giornaliero.

Se dunque una possibile regolamentazione della durata massima della prestazione può provenire dalla contrattazione di secondo livello, non bisogna dimenticare come tale possibilità sia realizzabile nelle grandi imprese andando escludere ancora una volta i dipendenti delle piccole e medie imprese nelle quali appare arduo che possano essere stipulati contratti collettivi di secondo livello.

Ad ogni modo, a parere di chi scrive, anche nel caso di lavoro agile devono essere garantite le 11 riposo consecutive nell’arco di 24 previste dall’art. 7 del Dlgs 66/2003, soprattutto alla luce del fatto che lo smart working pare essere solamente una forma di esecuzione diversa del lavoro subordinato e non una nuova tipologia contrattuale, motivo per cui sono applicabili tutte quelle norme che si riferiscono all’archetipo dell’art. 2094 c.c. salvo, ovviamente, quelle espressamente derogate dalla particolare forma di esecuzione del rapporto.

Dunque al di fuori degli orari stabiliti nell’accordo individuale di lavoro (o del normale orario di lavoro nel cd smart working da pandemia) il lavoratore non è tenuto ad essere rintracciabile dal datore di lavoro e non deve temere alcuna ritorsione sulla prosecuzione del rapporto.

Ma il problema del diritto alla disconnessione reso ancora più impellente a causa dell’obbligo di lavorare in smart working sussisteva già prima dell’esplodere della pandemia.

Anche nello schema di lavoro subordinato in azienda in questi anni si è sentito il problema del lavoratore interpellato telefonicamente o a mezzo mail al di fuori dell’orario di lavoro.

Anche in questo caso si può argomentare senza alcun rischio di essere smentiti che non sussista alcun obbligo del lavoratore di essere reperibile da parte del lavoratore.

Anzi un comportamento stressogeno del datore persino al di fuori dell’orario sarebbe in contrasto con l’art. 2087 c.c. dal quale è altresì ricavabile che sussista un obbligo di rispettare il riposo e la vita privata del prestatore.

E anche in base ad un’applicazione analogica dell’art. 19 si può argomentare che al di fuori dell’orario di lavoro, il prestatore di lavoro in presenza non abbia alcun obbligo di essere rintracciabile.

In sintesi al di fuori dell’orario di lavoro, il lavoratore non ha alcun obbligo di essere rintracciabile e l’eventuale tempo dallo stesso impiegato per rispondere a mail e telefonate deve essere qualificato come lavoro e, quindi, retribuito.

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