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IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMEN...

IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

IL LICENZIAMENTO PER SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

Per comporto si definisce il periodo massimo di tempo in cui il lavoratore, assente dal luogo di lavoro per infortunio o malattia, ha diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Poiché non sussiste una definizione legislativa in ambito giuslavoristico, in base all’orientamento costante della giurisprudenza, per malattia si intende quello stato patologico che impedisce l’esecuzione della prestazione lavorativa e non qualsiasi stato di alterazione piscosomatica (Cass. Civ. Sez. lav, sent. 14 giugno 1985 n. 3578).

L’infortunio, invece, è definito dall’art. 2 del T.U. 1124/1965 ed è caratterizzato dalla causa violenta, dal nesso di causalità con il lavoro svolto e dall’inabilità al lavoro come conseguenza dello stesso evento.

Nel cd periodo di comporto il datore di lavoro può licenziare solamente ove sussista una giusta causa ai sensi dell’art 2119 c.c. (Cass. Sez. lav. sent. 1 giugno 2005, n.11674), quindi per condotte aventi rilevanza disciplinare, ad esempio comportamenti inconciliabili con lo stato di malattia o infortunio o che possano ostacolare una perfetta guarigione.

Un altro esempio consiste nello svolgimento di un’altra attività lavorativa da parte del lavoratore infortunato o in malattia. Detta ipotesi può costituire causa di licenziamento per giusta causa nel caso in cui l’attività espletata possa ritardare la guarigione o attesti che la causa di malattia è in realtà inesistente (Cass. Sez. IV Lav., 23 maggio 2017, n. 12902, Cass. Civ. sez. lav., 13/03/2018, n.6047).

Durante l’assenza per malattia o infortunio il lavoratore ha diritto al trattamento economico stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e dall’equità.

Il periodo di comporto viene fissato dai CCNL che generalmente stabiliscono sia il “cd comporto secco” che consiste nell’assenza continuativa, sia il cd comporto per sommatoria. In quest’ultimo caso i CCNL fissano un arco temporale entro il quale la somma delle assenze per malattia o infortunio non può superare un determinato limite.

Nel calcolo del periodo di comporto sia secco che per sommatoria si considerano sia i giorni festivi, incluse le domeniche (Cass. sez. Lav sent. 23 giugno 2006, n. 14663), sia quelli non lavorativi all’interno del periodo di malattia (Cass. Sez. lav. sent. 15 dicembre 2008, n. 29317).

COMPORTO E COVID

E’ opportuno precisare che l’art. del DL 17 marzo 2020 n. 18, successivamente convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27 (cd Cura Italia) ha espressamente stabilito che il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva sia equiparato a malattia, ma non sia computabile nel periodo di comporto.

L’art. 87 del medesimo DL alla stesso modo stabilisce che il periodo trascorso in malattia o in quarantena con sorveglianza attiva, o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva dovuta al COVID-19 dai dipendenti delle amministrazioni di cui all’ art.1 comma 2 del dlgs 30 marzo 2001, n.165, e’ equiparato al periodo di ricovero ospedaliero e non e’ computabile ai fini del periodo di comporto.

SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

Il superamento del periodo di comporto non significa in automatico risoluzione del rapporto lavoro. E’ necessario che il datore di lavoro comunichi il licenziamento per superamento del periodo di comporto. La differenza rispetto alle altri ipotesi di licenziamento è che il datore non deve dimostrare un giustificato motivo (ad es. giusta causa o giustificato motivo oggettivo), ma deve limitarsi a specificare che il recesso è avvenuto per superamento del periodo di comporto indicando il periodo di assenza.

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto deve essere tempestivo, nel senso che deve essere intimato in un periodo di tempo ragionevolmente breve rispetto al superamento del comporto. Tuttavia tempestività non significa immediatezza. Al datore di lavoro, infatti, deve essere concesso un lasso di tempo di tempo per valutare l’utilità del rientro del lavoratore. Tale spatium deliberandi, a meno che non sia determinato dalla contrattazione collettiva, costituisce una valutazione di merito affidata al Giudice caso per caso (Cassazione civile sez. lav., 20/03/2019, n.7849, Cass. 28/03/2011 n. 7037 e Cass. 23/11/2010 n. 23920).

Dall’altra parte l’inerzia prolungata del datore di lavoro, eventualmente unitamente a comportamenti incompatibili con il recesso (Cass. Sez. lav. , sent. 6 aprile 2016, n. 6697; Cass. 10 novembre 2011, n. 23423 casi in cui al lavoratore dopo il periodo di comporto era stato concesso un periodo di congedo) equivale ad una rinuncia implicita di intimazione del licenziamento per tale causa (Cass., sez. lav. 20 settembre 2016, n. 18411; Cass. Civ. Sez. lav. sent. 11 maggio 2010, n.11342).

L’orientamento prevalente sia della giurisprudenza di legittimità che di merito esclude dal calcolo del periodo di comporto le assenze derivanti da infortunio sul lavoro o da malattia professionale (Cass. Civ. sez. lav., 28/03/2011, n.7037, Cass. Civ. sez. lav., 12/06/2013, n.14756, Cass., sez. lav. sent. 10 agosto 2012, n. 14377, Trib. Milano 8 maggio 1999).

PROSSIMITA’ DELLA SCADENZA DEL PERIODO DI COMPORTO

In prossimità del termine del periodo di comporto il lavoratore può chiedere di usufruire le ferie maturate e non godute al fine di preservare il posto di lavoro. In tal caso il datore di lavoro può rifiutare tale richiesta solo se il diniego è supportato da comprovate ragioni organizzative (Cass. Civ. Sez. Lav. ord. 04/09/2020 n. 19062; Cass. Sez. lav. sentenza 7 giugno 2013 n. 14471).

Si precisa, inoltre, che quasi la totalità dei contratti collettivi prevede che il lavoratore possa richiedere un periodo di aspettativa non retribuito, ma al fine di preservare il posto. In tal caso il limite del comporto viene allungato sino al termine della aspettativa.

SUSSISTENZA O MENO DI UN ONERE DEL DATORE DI AVVISARE LA PROSSIMITA’ DELL’ESAURIRSI DEL PERIODO DI COMPORTO

Mentre la giurisprudenza di legittimità sinora ha affermato che non sussiste un obbligo di preavviso dell’appropinquarsi del termine di comporto a meno che la contrattazione collettiva non lo preveda, in alcune pronunce di merito, basandosi sui principi generale di correttezza e buona fede e sul fatto che la tutela del diritto al lavoro sia uno dei capisaldi della carta costituzionale, è stata accertata la nullità del licenziamento per malattia perchè il datore di lavoro non aveva comunicato tempestivamente l’imminente superamento del periodo di comporto (Tribunale Santa Maria Capua Vetere, sez. lav. 11 agosto 2019, n. 20012, Tribunale di Milano, sent. n. 2857/2016).

PERIODO DI COMPORTO E LAVORATORI DISABILI

Occorre evidenziare che nel caso in cui il lavoratore sia disabile sia possibile sostenere che il licenziamento per superamento del periodo di comporto sia indirettamente discriminatorio e, quindi, nullo.

Il d.lgs. n. 216 del 2003, in attuazione della direttiva 2000/87/CE riguardante la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, fornisce la nozione di discriminazione e stabilisce che per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale.

La stessa disposizione all’art. 2 lett. a) precisa che la discriminazione diretta si ravvisa qualora per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o orientamento sessuale, una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga.

Nella successiva lett. b) è stabilito cosa debba intendersi per discriminazione indiretta. Quest’ultima si verifica qualora una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione, le persone portatrici di handicap le e persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre.

Nella discriminazione indiretta la condotta è di per sé legittima, ma diviene discriminatoria in considerazione degli effetti che produce nel soggetto che abbia quelle determinate caratteristiche elencate dalla norma stessa. La natura discriminatoria emerge proprio dall’applicazione del medesimo termine di comporto anche ai lavoratori disabili. Difatti una previsione in materia di comporto che prescinda totalmente dalla disabilità del lavoratore configura una disposizione “apparentemente neutra”, ma in grado di produrre una discriminazione indiretta a norma dell’art. 2 del d.lgs.n. 216 del 2003.

E’ evidente che a seconda della patologia o dell’infortunio occorso al lavoratore disabile possa rendersi necessario un tempo di recupero maggiore rispetto ad un lavoratore non invalido. Trattandosi, inoltre, di una discriminazione indiretta, trova applicazione il regime agevolato previsto dall’art 28, d.lgs.n. 150 del 2011, motivo per cui la discriminazione indiretta può essere dimostrata tramite presunzioni, ponendo, invece, a carico di parte datoriale l’onere probatorio della non discriminatorietà indiretta del licenziamento per superamento del periodo di comporto dimostrando l’assenza di nesso eziologico tra il ritardo nella guarigione e la patologia invalidante (Tribunale Milano, 28/10/2016, rib. S.M. Capua Vetere, ord. n. 20012/2019 ).

TUTELE APPLICABILI NEL CASO DI LICENZIAMENTO INTIMATO IN ASSENZA DEL SUPERAMENTO DEL PERIODO DI COMPORTO

La tutela in questo caso varia a seconda del fatto che l’impresa raggiunga i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 commi 8 e 9 statuto del lavoratore e che sia intimato per dipendenti assunti prima o dopo l’entrata in vigore del cd Jobs Act (D.lgs 23/2015), quindi successivamente al 7 marzo 2015.

Nel caso di dipendenti assunti prima dell’ 8 marzo 2015 in un’impresa che raggiunge i requisiti di organico stabiliti dall’art. 18 commi 8 e 9, il comma 7 del medesimo art. 18 St. Lav. stabilisce che in caso di licenziamento del lavoratore in violazione del disposto dell’art. 2110 c.c., si applichi il comma 4 del medesimo articolo il quale prevede che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto entro il limite delle dodici mensilità, dedotto quanto il lavoratore ha ottenuto per lo svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione e di quanto avrebbe potuto percepire se si fosse diligentemente dedicato alla ricerca di una nuova occupazione; il datore di lavoro è condannato altresì al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra. Il lavoratore può chiedere entro trenta giorni, in sostituzione della reintegrazione, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.

Nel caso in cui l’impresa che non raggiunga i requisiti dimensionali dei più volte citati commi 8 e 9, al lavoratore sarà dovuta una tutela indennitaria in base ai minimi e massimi stabiliti dall’art. 8 legge 604/1966, quindi un’indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.

Per i lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore si era creato un vuoto normativo posto che il Jobs Act nulla prevede, a differenza dell’art. 18 comma 7 Stat. Lav., quale sia la tutela applicabile in caso di superamento del periodo di comporto.

Si erano prospettate inizialmente in dottrina tre possibili soluzioni. La prima si basava che la violazione dell’art. 2110 c. c., norma imperativa e inderogabile, fosse sussumibile nell’ipotesi di nullità del recesso (art. 1418 c. c.) con conseguente applicazione della tutela reintegratoria “forte” prevista per i licenziamenti nulli/discriminatori di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015;

La seconda ipotesi riconduceva il licenziamento intimato durante la malattia negli “altri casi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo o soggettivo o della giusta causa con conseguente applicazione della cd tutela indennitaria forte (indennità risarcitoria pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità, ex art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 23/2015);

La terza ipotesi applicava per analogia l’art. 18 comma 7 dello statuto statuto dei lavoratori con conseguente tutela reintegratoria debole.

A parere di chi scrive oggi il problema è superato a seguito della sentenza a Sezioni Unite del 2018( Cass Civ. S.U. sent. 22 maggio 2018 n. 12568).

La Suprema Corte conferma la validità della prima ipotesi prospettata in quanto l’art.2110, comma 2, c.c. non consente soluzioni interpretative diverse dalla nullità: “il valore della tutela della salute è sicuramente prioritario all’interno dell’ordinamento… così come lo è quello del lavoro… In questa cornice di riferimento è agevole evidenziare come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all’interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro”

Da quanto precisato dalla Suprema Corte, a parere di chi scrive dovrebbe derivare per gli assunti ai quali si applica il Jobs Act la tutela reintegratoria di cui all’art. 2 del Dlgs 23/2015 indipendentemente dal raggiungimento o meno dei requisito di organico stabiliti dai commi 8 e 9 dell’art. 18 l.300/1970.

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