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Il Mobbing

Il Mobbing


IL MOBBING

Il presente articolo si prefigge lo scopo di analizzare una fattispecie sulla quale sia la giurisprudenza che la dottrina hanno avuto più volte modo di soffermarsi soprattutto nell’ultimo decennio: il mobbing. Verrà dapprima analizzato che cosa si intende per mobbing per poi passare a descrivere quali sono gli elementi costitutivi di tale fattispecie. Successivamente si descriverà in che modo il lavoratore può dimostrare in giudizio l’esistenza di un danno da mobbing e quali voci di danno può richiedere.

1) SIGNIFICATO DEL TERMINE MOBBING

Il termine mobbing (deriva dall’inglese to mob ed in italiano è traducibile in aggredire in massa, accerchiare) descrive atti e comportamenti vessatori, perpetrati in qualsiasi modo, sistematici e reiterati nel tempo da parte di colleghi (mobbing orizzontale) o superiori (mobbing verticale).

Costituisce un obbligo del datore di lavoro prevenire o far cessare condotte mobbizzanti da parte di colleghi o superiori. Detto precetto lo si ricava dall’art. 2087 c.c.: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, seconda la particolarità del lavoro, l’esperienza la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”

L’art. 2087 vincola il datore di lavoro ad un obbligo di sicurezza nei confronti dei lavoratori, obbligo di sicurezza che è più pregnante dei doveri di protezione facenti capo alle parti, in base al principio di buona fede (art. 1375 c.c.), nell’esecuzione di tutti i rapporti contrattuali, a tutela dei rischi inerenti il rapporto.

La formulazione dell’art. 2087 c.c. è tale da farlo considerare un vero e proprio precetto riassuntivo degli obblighi datoriali di facere, scritti e non scritti, presenti e futuri, vigenti in tema di sicurezza nei confronti di tutti i lavoratori.

L’obbligo del datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. non si esaurisce, infatti, nel rispetto delle norme regolamentari presenti nel nostro ordinamento, dettate per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma comporta la necessità di porre in essere tutte quelle misure che siano idonee a prevenire situazioni di danno per la salute fisica e per la personalità del lavoratore.

Ancora oggi in Italia la definizione maggiormente accreditata del fenomeno mobbing risulta essere quella dello psicologo Harald Ege ( V. H. Ege, Mobbing in Italia. Introduzione al mobbing culturale, Bologna, 1996) secondo cui il “mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente in un costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in una posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di provocare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi ed a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che possono portare anche invalidità psicofisiche permanenti di vario genere e percentualizzazione”.

Il mobbing sarebbe dunque caratterizzato da una molteplicità di azioni reiterate nel tempo sul luogo di lavoro, poste in essere da uno o più soggetti che arrecano danni di vario genere ad un altro soggetto.

Secondo la psicologia del lavoro, in particolare, il mobbing presuppone che la vicenda lavorativa conflittuale non sia stabile, ma in evoluzione secondo una progressione di fasi.

Dette fasi sono sei e sono state così descritte: “dopo la c.d. condizione zero, di conflitto fisiologico normale e accettato, si passa alla prima fase del conflitto mirato, in cui si individua la vittima e verso di essa si dirige la conflittualità generale … la seconda fase è il vero e proprio inizio del mobbing, nel quale la vittima prova un senso di disagio e di fastidio … la terza fase è quella nella quale il mobbizzato comincia a manifestare i primi sintomi psicosomatici, i primi problemi per la sua salute … la quarta fase del mobbing è quella caratterizzata da errori e abusi dell’amministrazione del personale … la quinta fase del mobbing è quella dell’aggravamento delle condizioni di salute psicofisica del mobbizzato che cade in piena depressione ed entra in una situazione di vera e propria prostrazione … la sesta fase, peraltro indicata solo e fortunatamente quale fase eventuale, nella quale la storia del mobbing ha un epilogo: nei casi più gravi nel suicidio del lavoratore, negli altri nelle dimissioni, o anticipazione di pensionamenti, o in licenziamenti”

La giurisprudenza di merito e di legittimità ha mutuato integralmente tale definizione, cercando di valorizzare gli elementi essenziali della fattispecie senza però giungere ad una specifica descrizione del fenomeno che, come è stato giustamente evidenziato, rischierebbe di escludere qualcuna delle multiformi modalità persecutorie possibili nei casi della vita.

Tra le definizioni che appaiono più complete vi è quella enunciata dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 4774/2006 più volte richiamata in pronunce più recenti (si veda ad es. Cass., Sez. lav., 3 luglio 2017, n. 16335). In tale pronuncia si legge testualmente che “il mobbing consiste in una condotta sistematica e protratta nel tempo, con caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione speculativa e pretestuosa, che concreta per le sue caratteristiche vessatorie una lesione all’integrità fisica ed alla personalità morale garantite dall’art. 2087 c.c.; tale illecito, che costituisce una violazione dell’obbligo di sicurezza posta da questa norma a carico del datore di lavoro, si può realizzare con comportamenti materiali o con provvedimenti del datore indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato”.

Anche la giurisprudenza di merito è intervenuta definendo il mobbing. Tra le tante definizioni che sono state enucleate, si può richiamare quella resa dal Tribunale di Torino, che sostanzialmente ha identificato il mobbing in “atti e comportamenti ostili vessatori e di persecuzione psicologica, posti in essere dai colleghi, il c.d. mobbing orizzontale, e/o dal datore di lavoro e dai superiori gerarchici, il c.d. mobbing verticale, nei confronti di un dipendente, individuato come la vittima; si tratta di atti e comportamenti intenzionalmente volti ad isolare ed emarginare la vittima nell’ambiente di lavoro, e spesso finalizzati ad ottenerne l’estromissione attraverso il licenziamento ovvero inducendolo a rassegnare le dimissioni, il c.d. mobbing strategico o bossing. L’effetto di tali pratiche di sopruso è di provocare nel soggetto mobbizzato uno stato di disagio psicologico e l’insorgere di malattie psicosomatiche classificate come disturbi di adattamento e, nei casi più gravi, disturbi post-traumatici da stress” (Trib. Torino, 16 novembre 1999 in RIDL, 2000, II,102; in senso conforme Trib. Torino, 30 dicembre 1999 in D&L, 2000, 378).

2) GLI ELEMENTI COSTITUTIVI DEL MOBBING

Il comune denominatore dei citati tentativi definitori è dato dalla presenza di alcuni elementi imprescindibili per la sussistenza della fattispecie, quali la sistematicità, la durata, la molteplicità delle condotte e, infine, la persecutorietà del comportamento posto in essere dal mobber (Cass., 15 maggio 2015, n. 10037).

In sostanza affinché sia configurabile il mobbing sono necessari tre elementi oggettivi e uno soggettivo anche se in relazione a quest’ultimo, come si argomenterà di qui a breve, non tutte le pronunce lo ritengono un elemento indefettibile della fattispecie.

Gli elementi oggettivi affinchè sussista una condotta mobbizzante a danno di un lavoratore sono i seguenti:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro, del superiore gerarchico o dei colleghi ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;

L’elemento soggettivo è quello persecutorio ovvero la volontà dii colleghi e superiori di allontanare un lavoratore.

Parte della giurisprudenza, come già evidenziato, ritiene che la fattispecie mobbizzante possa, dirsi concretizzata senza che il lavoratore debba dimostrare l’intento persecutorio del datore di lavoro e dei suoi colleghi.

Ciò che rileva, infatti, è l’effetto lesivo delle condotte tenute dai colleghi e dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore prescindendo dall’intento doloso o persecutorio.

In altri termini la finalità illecita può essere apprezzata dal Giudice in relazione all’idoneità lesiva dei beni della persona e alla intrinseca ratio discriminatoria, che può essere accertata con le circostanze di fatto e le caratteristiche oggettive della condotta, oltre alla permanenza nel tempo della stessa: dare rilevanza all’elemento soggettivo produrrebbe una restrizione dell’ambito di operatività del mobbing, implicando la difficile verifica dell’intenzione del trasgressore, laddove appare sufficiente, invece, per la ricorrenza e la rilevanza del fenomeno, che la sequenza di atti e comportamenti contrastanti con gli interessi e le esigenze del lavoratore assumano una valenza persercutoria, in cui risulta implicito il perseguimento di una finalità illecita.

Queste censure in merito alla non necessaria dimostrazione dell’intento persecutorio sono state in parte recepite dalla recente giurisprudenza di merito e di legittimità che ha escluso la necessaria prova dell’intento persecutorio condannando il datore di lavoro al risarcimento del danno da salute da straining:

lo straining è costituito da condotte datoriali che ledono i diritti fondamentali del dipendente e consistono nell’adozione di condizioni lavorative “stressogene” e che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possono determinare la sussistenza di un più tenue danno a fronte di condotte datoriali non sorrette da un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi o comunque a configurare una condotta di “mobbing”. (Cfr ex plurimis Cassazione civile sez. lav., 29/03/2018, n.7844, Tribunale Roma, sez. lav., 10/01/2019, n.156 ).

Esigenze di completezza espositiva inducono inoltre a richiamare, sempre con riferimento all’elemento soggettivo, gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di legittimità (Cass., 5 novembre 2012, n. 18927), laddove ha affermato che, nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati, esaminati singolarmente (ma sempre in sequenza causale), pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che può essere chiamato a risponderne. Ciò anche nelle ipotesi in cui tali comportamenti dei colleghi e dei superiori possano essere considerati legittimi (Cass., sez. lav., 27 novembre 2018, n. 30673, Cass. Civ., Sez. Lav., ord. 20 giugno 2018, n. 16256).

3) COME DIMOSTRARE IL DANNO

A parere di chi scrive il lavoratore che agisce richiedendo un risarcimento per mobbing deve essere esonerato dalla prova dell’elemento soggettivo della persecuzione.

Tale deduzione trova una base giuridica sul fatto che la Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 8438/2004 ha ritenuto il mobbing una fattispecie di natura contrattuale in base al costante riferimento all’art. 2087 c.c. E’ noto che l’elemento soggettivo deve essere dimostrato dal danneggiato nelle ipotesi di responsabilità extracontrattuale, ma non in quelle di responsabilità contrattuale. Tale assunto è stato confermato da successive pronunce della Suprema Corte (Cassazione Civile 25 maggio 2006, n. 12445; in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774).

In quest’ultima pronuncia la Suprema Corte sancisce expressis verbis che non possono esservi dubbi sulla natura contrattuale di tale responsabilità e spiega che “il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato – per legge (ai sensi dell’articolo 1374 c.c.) – dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza (articolo 2087 c.c., cit., appunto) e, dall’altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato”.

In linea generale, la disposizione impone al datore di lavoro, secondo i principi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., l’obbligo di astenersi da comportamenti che possano ledere la personalità morale del lavoratore. Ne deriva, quindi, che la ripartizione degli oneri probatori avverrà secondo le regole degli artt. 1218 e 1223 c.c. con conseguente parziale inversione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697, comma 1, c.c., per quanto attiene alla presunzione legale della colpa. Il lavoratore, dunque, dovrà dimostrare gli elementi di fatto che concretizzano la condotta vessatoria posta in essere dal datore o da un superiore gerarchico, anche avvalendosi del metodo di Ege con esclusione di una ripetizione costante delle azioni ostili; mentre spetterà al datore di lavoro provare che gli elementi di fatto dedotti non costituiscono violazione degli obblighi di protezione o di sicurezza e, in ogni caso, che gli episodi contestati non siano finalisticamente orientati a vessare o discriminare il lavoratore o, ancora, che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione dipendente da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.

Per quanto riguarda l’accertamento del danno derivante da mobbing è ormai consolidato l’orientamento secondo cui tale danno possa essere dimostrato tramite qualsiasi mezzo, ivi incluse le presunzioni e anche tramite dati statistici che attestino le conseguenze negative di condotte vessatorie sulla psiche del lavoratore (cfr. Corte Cass., sez. lav. 3 aprile 2014, n. 7816, Corte di Cass, sez. lav. 11 giugno 2013, n. 17174)

È opportuno precisare come vi siano pronunce che evidenziano che, nel caso in cui il lavoratore non riesca a dimostrare pienamente tutti gli elementi necessari per ottenere un risarcimento danno derivante da mobbing, tale carenza probatoria  non comporta l’automatico rigetto della domanda. Infatti il Giudice può utilizzare gli ampi poteri istruttori previsti dall’art. 421 c.p.c. affinché la verità processuale e quella sostanziale non viaggino su binari paralleli (Cass. Sez. lav. 10 dicembre 2009, n. 290096. Ovviamente il lavoratore deve avere fornito nel ricorso introduttivo elementi tali da costituire una semiplena probatio di quanto dallo stesso sostenuto in modo da circoscrivere il campo d’indagine del giudice.

4) LA PREVALENTE NATURA NON PATRIMONIALE DEL DANNO DA MOBBING

In relazione al danno da mobbing questo rientra generalmente nell’alveo del danno non patrimoniale. Tale inquadramento dogmatico e rimasto anche dopo le sentenze gemelle c.d. di San Martino ( Cass. S.U. 11.11.2008 26972/3/45) che come noto avevano ridotto notevolmente l’estensione del danno non patrimoniale.

Senza divulgarsi troppo sulle alterne fortune del danno esistenziale in ambito giurisprudenziale, soffermandosi nello specifico ovvero del danno da mobbing, in numerose pronunce la Cassazione (cfr ex plurimis Cass. 23 novembre 2015 n. 23837) ha riconosciuto la risarcibilità del danno esistenziale da mobbing definendo lo stesso non un danno meramente di natura emotiva, ma oggettivamente accertabile attraverso la dimostrazione di una modifica peggiorativa sulle abitudini di vita e sulle scelte dinamico relazionali. Si rimarca altresì come oltre alla modifica in senso peggiorativo il lavoratore debba dimostrare, inoltre, che tali modifiche hanno effettivamente cagionato un danno utilizzando qualisasi mezzo incluse le presunzioni.

Altre pronunce hanno riconosciuto il danno biologico di natura psichica. Ad esempio nella sentenza della Cassazione del 6 settembre 2014 n. 17698 la Cassazione aveva riconosciuto un danno biologico psichico poiché le condotte vessatorie avevano cagionato un “disturbo di adattamento con tono dell’umore depresso”. Il danno quindi era stato valutato in termini di invalidità temporanea e permanente in base alle tabelle di Milano.

Altre pronunce hanno considerato il danno da mobbing come danno morale Cass. 25.07.2013 n. 18093).

Ovviamente il mobbing può comportare anche un danno patrimoniale consistente nella minore capacità di guadagno. Si pensi, ad esempio, se dalle condotte stressogene derivi un’inidoneità del lavoratore a svolgere determinate mansioni con una conseguente riduzione della capacità lavorativa.

 


 

 

 

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