CASSAZIONE: ANCHE I DETENUTI HANNO DIRITTO ALLA NASPI
- 23 Agosto 2024
- Avv. Francesco Meiffret
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CASSAZIONE: ANCHE I DETENUTI HANNO DIRITTO ALLA NASPI
Cass Civ. sez. Lav sent 5 gennaio 2024 n. 396
ABSTRACT
La Suprema Corte sezione lavoro, con la sentenza n. 396 del 05.01.2024 convalida l’orientamento maggioritario sviluppatosi nei Tribunali di merito in base al quale anche il detenuto che svolge lavoro intramurario al servizio dell’amministrazione penitenziaria, cessato il rapporto a causa della scarcerazione ha diritto alla Naspi qualora siano soddisfatti i requisiti stabiliti dall’art. 3 del Dlgs n.22/2015 1.
1) DESCRIZIONE DEI FATTI
L’Inps ricorre in Cassazione a seguito della doppia soccombenza nei due precedenti gradi di merito.
Sia il Tribunale di Torino che la Corte d’Appello di Torino avevano ritenuto legittima la richiesta del lavoratore detenuto di percepire la Naspi poichè aveva svolto attività lavorativa all’interno del carcere. Infatti, una volta scarcerato, il rapporto di lavoro intramurario si era risolto automaticamente. Tale situazione comportava un’ipotesi di disoccupazione involontaria per il lavoratore con conseguente diritto alla Naspi in presenza degli altri requisiti stabiliti dall’art. 3 del Dlgs n.22/2015.
Avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino, l’Inps ha presentato ricorso censurando sotto due profili la sentenza impugnata.
Ha contestato la natura subordinata del lavoro svolto all’interno del carcere rilevandone la natura obbligatoria e rieducativa dello stesso. Il lavoro svolto dai detenuti, secondo l’Inps, ha cause e finalità diverse rispetto al comune lavoro subordinato e non è riconducibile a questa fattispecie.
Inoltre, nel caso di specie evidenzia come il rapporto si sia interrotto per via della scarcerazione del lavoratore. Sostiene che tale ipotesi non rientri nel concetto di disoccupazione involontaria che legittima la concessione del sussidio di disoccupazione. In altri termini, secondo l’Inps, la scarcerazione non può essere equiparata ad un licenziamento.
A sostegno delle proprie tesi l’ente previdenziale richiama una precedente sentenza della Suprema Corte sez. penale, la n. 18505 del 3 maggio 2006. In tale pronuncia la Suprema Corte aveva evidenziato le peculiarità del lavoro svolto all’interno degli istituti penitenziari e su tale presupposto aveva respinto la richiesta di disoccupazione del ricorrente detenuto.
2) LE PROBLEMATICHE GIURIDICHE AFFRONTATE
1) Il rapporto di lavoro in carcere al servizio dell’amministrazione penitenziaria, anche prima della riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, può essere equiparato ad un rapporto di lavoro subordinato comune?
2) La cessazione del rapporto di lavoro del detenuto a causa della sua scarcerazione può essere considerata un’ipotesi di disoccupazione involontaria che legittima l’accesso all’indennità di disoccupazione?
3) LA DECISIONE
La Suprema Corte respinge entrambe le censure mosse dall’Inps confermando la sentenza della Corte d’appello di Torino e, di conseguenza, il diritto del lavoratore detenuto che ha svolto attività lavorativa all’interno del carcere a percepire la Naspi poiché la scarcerazione costituisce un’ipotesi di disoccupazione involontaria.
3.1) LA NATURA DEL RAPPORTO DI LAVORO IN CARCERE
Gli Ermellini, nel motivare la propria decisione, innanzitutto svolgono un accurato excursus sia giurisprudenziale che normativo sulla disciplina del lavoro nel carcere volto a convalidare la tesi in base alla quale, anche prima della riforma del 2018 dell’ordinamento penitenziario (D.Lgs. n. 124/2018), il rapporto di lavoro intracarcerario debba considerarsi, seppur con alcune particolarità, un normale rapporto di lavoro subordinato al quale applicare tutte le tutele previste dal Legislatore.
Nel caso esaminato dalla Suprema Corte il detenuto aveva lavorato all’interno del carcere dal 2014 al 2017, quindi prima della già richiamata riforma dell’ordinamento penitenziario avvenuta con il dlgs n. 124/2018 che ha espressamente stabilito tale equiparazione.
Dunque il rapporto di lavoro nel caso analizzato era regolato dalla versione precedente dell’ordinamento penitenziario (l. n. 345/1975).
La Suprema Corte, nel motivare la propria decisione, innanzitutto rileva come la riforma del 1975 già avesse avvicinato il rapporto di lavoro dei detenuti alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato concedendo a questi una serie di diritti e tutele tipiche della prestazione di lavoro subordinato.
Ad esempio l’art. 20, comma 17, della l. n. 345/1975 antecedente la riforma del 2018, stabiliva che “la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e, alla stregua di tali leggi, sono garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa previdenziale”.
Tale avvicinamento si è rafforzato a seguito di interventi della Corte Costituzionale e di alcune modifiche normative.
Ad esempio la Corte Costituzionale, con sentenza del 22 maggio 2001 n. 158, aveva sancito l’illegittimità dell’art. 20 comma 16 dell’allora ordinamento penitenziario nella parte in cui non riconsceva al lavoratore detenuto il diritto alle ferie o all’indennità delle ferie maturate e non godute.
Nel proseguire il proprio ragionamento la Suprema Corte ricorda come l’allora art. 22 stabilisse che la retribuzione (in allora mercede) del lavoratore detenuto non dovesse essere inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. Evidenziano come il lavoro intramurario sia un lavoro protetto in base all’art. 4, n. 9, del Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.
Altro punto di contatto è la tutela giurisdizionale affidata al Giudice del Lavoro e non più al Tribunale della Sorveglianza a seguito di un altro intervento della Corte Costituzionale del 2006 (ordinanza n. 246).
Dunque la strada intrapresa dal Legislatore, il cui punto d’arrivo è stata la riforma del 2018, e dal Giudice delle Leggi e della stessa Suprema Corte, è stata quella di equiparare il rapporto di lavoro subordinato all’interno del carcere ad un normale rapporto di lavoro subordinato.
Ed il punto dirimente, secondo gli Ermellini, è che anche nel rapporto di lavoro all’interno delle carceri sussista la causa tipica del rapporto di lavoro subordinato: scambio tra retribuzione e attività lavorativa svolta.
La finalità rieducativa del lavoro all’interno delle carceri e la sua obbligatorietà, contrariamente a quanto sostenuto dall’Inps, non modifica la natura le modalità di esecuzione del rapporto di lavoro che deve essere per quanto possibile simile a quello dei lavoratori liberi.
Dunque secondo i Giudici della Suprema Corte il lavoro all’interno del carcere, già prima della riforma del 2018, era equiparabile al lavoro subordinato.
Tale equiparazione riguarda anche gli istituti previdenziali ed assistenziali.
In relazione a questi profili che costituiscono l’oggetto specifico della decisione, la Suprema Corte si richiama alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo riferita sul lavoro carcerario, n. 37452/02 , caso Stummer v. Austria.
La Suprema Corte ricorda che la sentenza della Corte Europea afferma il principio in base al quale le peculiarità del rapporto del rapporto di lavoro in carcere non sono rilevanti ai fini della soluzione del problema relativo alla spettanza o meno della tutela previdenziale per la quale occorre guardare, piuttosto, “alla natura e alla funzione della tutela medesima”.
Il detenuto deve essere considerato ai fini previdenziali alla stregua di un lavoratore subordinato libero, indipendentemente dal carattere obbligatorio e riabilitativo del lavoro svolto in carcere. Ne consegue che una vota maturati i requisiti il lavoratore in carcere ha diritto a quelle forme di assistenza quali la pensione o l’indennità di disoccupazione. Diversamente opinando vi sarebbe una forma di discriminazione nei confronti dei soggetti detenuti.
3.2) LA SCARCERAZIONE COME IPOTESI DI DISOCCUPAZIONE INVOLONTARIA
Una volta appurata la natura del rapporto di lavoro intracarcerario, la Suprema Corte analizza la seconde questione, ovvero se la scarcerazione possa costituire un’ipotesi di disoccupazione involontaria.
La Suprema Corte condivide richiamandole le motivazioni presenti nella sentenza emessa dai Giudici della Corte d’appello di Torino. Quest’ultimi hanno precisato come il concetto di disoccupazione involontaria sia stato esteso a varie ipotesi, quali le dimissioni per giusta causa dei lavoratori o specifici casi di risoluzione del rapporto.
Oltre a tali motivazioni rilevate dalla Corte d’appello, la Suprema Corte evidenzia come la scarcerazione sia un fatto giuridico indipendente dalla volontà del lavoratore.
Inoltre sempre la Suprema Copre effettua un parallelismo con il contratto di lavoro a tempo determinato, al termine del quale viene pacificamente riconosciuta la NASPI a prescindere dalla volontà delle parti.
In ultimo la Suprema Corte rileva come la negazione della Naspi al momento della scarcerazione ostacolerebbe il reinserimento sociale del lavoratore ex carcerato privandolo del sostentamento economico durante la ricerca di una nuova attività lavorativa.
4) CONCLUSIONI
La sentenza della Suprema Corte a giudizio dello scrivente è pienamente condivisibile ed ispirata al principio di rieducazione del reo ex art. 27 comma 3 Cost. La rieducazione ed il reinserimento del detenuto anche tramite il lavoro può avvenire solamente con un’effettiva equiparazione del lavoro carcerario a quello comune. La Suprema Corte nella sentenza qui annotata rimarca più volte come “il lavoro carcerario è tanto più educativo quanto è più uguale a quello dei liberi”. Uguaglianza che deve sussistere anche nel caso d’interruzione del rapporto.
Nel momento della scarcerazione senza l’eventuale sussidio della Naspi è evidente che potrebbe essere pregiudicata la finalità rieducativa. E’ intuitivo che un soggetto appena uscito dal carcere, senza un sostentamento economico e in attesa di una nuova occupazione, sia a maggior rischio di recidiva.
Diversamente opinando vi sarebbe una situazione di discriminazione a danno dei lavoratori detenuti.
La sentenza della Suprema Corte, non essendone stata investita, lascia aperta un’altra questione in tema di accesso alla Naspi per il lavoro all’interno del carcere.
E’ noto che purtroppo le possibilità di lavoro all’interno del carcere siano in grado di soddisfare una platea molto ridotta. Per questo l’ordinamento penitenziario prevede sistemi di turnazione.
E sul punto alcune pronunce di merito hanno riconosciuto il diritto dei lavoratori detenuti ad usufruire della Naspi una volta terminato il proprio turno equiparando tale ipotesi ad un contratto di lavoro a termine. Ad esempio il Tribunale di Milano, con sentenza n. 1895 del 10 aprile 2024 (Trib Milano, senz lav. sent. 10 aprile 2024, n.1895), ha accolto il ricorso di un lavoratore ancora in stato di detenzione al quale l’Inps aveva negato la Naspi una volta terminato il proprio rapporto di lavoro intramurario con l’istituto penitenziario presso il quale era recluso.
Chi scrive ritiene che tale sentenza sia corretta. Non vi sono ragioni fondate, se non quelle meramente contabili dell’istituto previdenziale, per escludere il lavoratore ancora detenuto dal godimento della Naspi qualora sussistano i requisiti di legge.
Ed il parallelismo effettuato nella sentenza qui annotata con il contratto di lavoro a tempo determinato lascia presupporre un esisto favorevole a favore dei lavoratori detenuti qualora la questione giuridica venisse messa al vaglio della Suprema Corte.
1I requisiti consistono nella disoccupazione involontaria, in una pregressa contribuzione di almeno tredici settimane nell’arco dei quattro anni precedenti e 30 giorni di attività lavorativa negli ultimi dodici mesi
Per ulteriori informazioni sul tema rivolgersi all’Avv. Francesco Meiffret (info@studiolegalemeiffret.it, studiolegalemeiffret@gmail.com, cell. 3398177244, tel 0184532708)