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Tribunale di Cosenza: avviso di addebito Inps nullo se basato esclusivamente su dichiarazioni generiche dei lavoratori

Tribunale di Cosenza: avviso di addebito Inps nullo se basato esclusivamente su dichiarazioni generiche dei lavoratori

Trib.Cosenza, sent. 6 maggio 2025

Le dichiarazioni dei lavoratori rilasciate ad un organo ispettivo non hanno un’efficacia di prova piena e se generiche non possono giustificare una pretesa contributiva. Inoltre il loro contenuto deve essere considerato in senso atecnico, soprattutto se rilasciate da soggetti poco acculturati.

Anche il diverso inquadramento stabilito nel verbale ispettivo deve essere dimostrato in giudizio dall’ente impositore poiché le valutazioni effettuate dagli ispettori non costituiscono piena prova.

Sono questi i punti rilevanti dal punto di vista giuridico della sentenza emessa dalla sezione lavoro del Tribunale di Cosenza in data 06 maggio 2025.

Una società si oppone ad un avviso di addebito Inps basato su un verbale ispettivo redatto dall’ispettorato del lavoro.

L’Ispettorato riqualificava il rapporto di lavoro di un dipendente della società da impiegato a quadro. Motivava tale decisione sui seguenti elementi.

Innanzitutto il lavoratore nel 2015 era stato assunto come quadro con contratto a tempo determinato. Successivamente nel 2020 era stato nuovamente assunto a tempo indeterminato, ma con la qualifica d’impiegato amministrativo di V livello in base al CCNL commercio.

Oltre alla pregressa assunzione come quadro, la riqualifica era basata sulle dichiarazioni rese dal lavoratore medesimo e dall’amministratore durante l’accertamento ispettivo. Dalle dichiarazioni era emerso che il lavoratore si occupasse della gestione amministrativa della società.

Sulla base di detto accertamento l’Inps aveva emesso un avviso di addebito con il quale veniva chiesto il versamento della somma di € 32.389,96 a titolo di contributi dovuti alla gestione Aziende con lavoratori dipendenti per il periodo dal 2020 al 2024.

Avverso l’avviso, la società presentava opposizione lamentando la mancata prova del diverso inquadramento da parte dell’Inps nonché l’impossibilità di quest’ultima a provvedere alla diversa qualificazione.

L’Inps si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma del contenuto del verbale unico ispettivo.

La causa veniva discussa in modalità di trattazione scritta senza l’assunzione di testi.

Il Giudice accoglie nel merito il ricorso.

Pur dando atto che la riqualificazione del rapporto può essere effettuata dall’ispettorato del lavoro a seguito di accertamento come stabilito dalla III sezione del Consiglio di stato nella sentenza n. 2778 del 21 marzo 2024, rileva come l’Inps non abbia dimostrato la correttezza del nuovo inquadramento.

Nelle motivazioni della sentenza viene innanzitutto richiamato il granitico orientamento della Suprema Corte in base al quale i verbali di accertamento hanno un’efficacia di prova piena sino a querela di falso limitatamente ai fatti che sono avvenuti in presenza degli ispettori o che siano stati dagli stessi compiuti (cfr. ex plurimis Cass Civ., Sez. Lav., Ord.15 aprile 2024 n. 10058).

In secondo luogo viene altresì ricordato come sia altrettanto consolidato l’orientamento della Suprema Corte in base al quale spetta all’Inps dimostrare la legittimità della pretesa contributiva azionata (Cass., Civ. Sez. Lav., ord. 17 dicembre 2021 n. 40644).

Nel caso di specie gli ispettori hanno omesso di produrre le declaratorie contrattuali delle mansioni relative ai quadri e di quelle relative agli impiegati.

Viene, quindi, meno la possibilità di effettuare un raffronto tra le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore e quelle rientranti nella categoria quadro.

Dal momento che la riqualificazione del rapporto si tratta di una mera valutazione degli ispettori, questa non ha un valore probatorio precostituito, ma deve essere dimostrata in giudizio.

La rideterminazione del livello contrattuale, quindi, poggerebbe solo sulla precedente assunzione a tempo determinato e sulle dichiarazioni rese durante l’accertamento da parte dell’amministratore e dal lavoratore “promosso” a quadro.

Il primo elemento non ha rilevanza perché non riguarda il periodo oggetto di accertamento. Quanto alle seconde, ovvero le dichiarazioni, queste sono generiche e non in grado di giustificare il riconoscimento del livello di quadro.

In particolar modo il Giudice riconosce l’eccezione formulata dalla società opponente: alle dichiarazioni dei lavoratori non devono essere attribuite un significato tecnico giuridico o aziendalistico.

L’affermazione raccolta nel verbale secondo la quale il lavoratore si occupava dell’amministrazione della società non può giustificare il riconoscimento del livello di quadro. Precisa il Giudice come la medesima mansione, a seconda del grado di difficoltà, di responsabilità e di autonomia, possa essere presente in più livelli o in differenti categorie. L’Inps avrebbe dovuto dimostrare che l’attività amministrativa e di gestione non si limitava alla svolgimento di compiti materiali e formali, ma di rilevanza tale da giustificare il livello di quadro accertato nel verbale unico ispettivo.

A parere dello scrivente la sentenza appare ampiamente condivisibile.

Innanzitutto il Giudice accoglie la censura della difesa dell’opponente sull’effettiva portata delle dichiarazioni rese dinnanzi agli ispettori del lavoro.

Costituisce, infatti, una circostanza diffusa che nelle dichiarazioni rese dai lavoratori durante un accertamento siano presenti termini di carattere giuridico dei quali si dubita la paternità. Ad ogni modo alle dichiarazioni rese dai testi, soprattutto se in possesso di un livello di istruzione medio basso e privi di conoscenze economiche giuridiche, deve essere attribuito un significato non tecnico.

Attualmente i verbali vengono scritti dagli ispettori e fatti firmare dai lavoratori dichiaranti. Nel 2025 sarebbe opportuno, per una questione di trasparenza, che il Legislatore prevedesse che le dichiarazioni rese dai lavoratori venissero anche registrate in modo da valutarne ex post l’effettiva portata e corrispondenza a quanto verbalizzato. Ad esempio chi scrive ha avuto modo di affrontare un caso in cui alcuni lavoratori ungheresi durante l’ispezione risultassero comprendere perfettamente l’italiano. Nel processo il Giudice ha dovuto disporre che gli stessi fossero escussi mediante l’ausilio di un traduttore.

Sul punto occorre precisare come il contenuto delle dichiarazioni rese da terzi non sia assistito da fidefacienza.

Ed, infatti, più volte è stato affermato che i verbali di accertamento degli organi ispettivi, fanno piena prova, fino a querela di falso, con riguardo ai fatti attestati dal pubblico ufficiale rogante come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti, nonché alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni delle parti, mentre la fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante ne’ ai fatti di cui i pubblici ufficiali hanno avuto notizia da altre persone (cfr ex plurimis Corte di Cassazione Sezione 6 Lavoro, ord. 14 dicembre 2022 n. 36573; Cass 20019 del 2018; Cass. n. 23800 del 2014).

Come già evidenziato nel caso affrontato le dichiarazioni erano generiche. E’ opportuno tuttavia precisare che l’orientamento prevalente della Suprema Corte stabilisca che una sanzione amministrativa possa essere giustificata anche in base alle sole dichiarazioni rese dai lavoratori durante l’accertamento se queste sono circostanziate, complete e non smentite dalle deduzioni illustrate dalla società in sede giudiziaria (cfr. ex plurimis Cass. Civ., Sez. Lav ord. 7 settembre 2023, n. 26086).

Tale orientamento maggioritario a parere di chi scrive non pare condivisibile.

Le dichiarazioni raccolte dall’Ispettore dovrebbero avere nel processo, relativamente ai fatti dichiarati, lo stesso valore probatorio di quelle raccolte da qualsiasi altro soggetto.

Diversamente opinando, se si assegnasse valore di prove autosufficienti alle dichiarazioni raccolte fuori dal processo, sarebbero violate le disposizioni sulla prova testimoniale, che impongono le garanzie della presenza del giudice imparziale con i relativi poteri di direzione del processo e di verbalizzazione, dell’assunzione del contraddittorio tra le parti e della responsabilità per falsa testimonianza. Pertanto le dichiarazioni stragiudiziali non possono sostituire la prova testimoniale, da espletarsi, anche d’ufficio, su fatti specifici allegati e capitolati e non deducibile genericamente come conferma di quanto dichiarato all’ispettore ( sul punto si veda Cass. Civ sez. lav sent. n.11746 del 5 maggio 2007).

Ed in caso di difformità tra la dichiarazione stragiudiziale all’ispettore e la deposizione testimoniale, dovrebbe prevalere quest’ultima, in quanto vera prova assistita dalle garanzie tipiche della presenza e verbalizzazione del giudice, del contraddittorio tra le parti e della responsabilità per falsa testimonianza. Quanto evidenziato trova conferma in alcune pronunce di merito (Trib. Foggia sez. lav sent. 1 febbraio 2022 , Trib. Cassino, 25 ottobre 2017).

Tuttavia -in maniera alquanto opinabile a parere di chi scrive- alcune pronunce della Suprema Corte stabiliscono che in caso di contrasto tra le dichiarazioni rese durante l’accesso ispettivo e quelle rese dinnanzi al Giudice prevalgano le prime (cfr ex plurimis Cass. Civ., sez. lav., sent, 08 settembre 2015, n.17774, Cass. civ Sez. Lav ord., 02 novembre 2020, n. 24208).

La motivazione fornita dalla Suprema Corte è che la maggiore attendibilità delle dichiarazioni raccolte dagli ispettori derivi dall’essere state fornite nell’immediatezza del fatto rispetto a quelle rese in sede giudiziale. Tale motivazione appare debole, quasi evanescente se si considera che la prova costituenda dovrebbe formarsi dinnanzi al Giudice terzo ed imparziale nel contraddittorio tra le parti. Tutte queste garanzie vengono meno se la prova viene predisposta solo dal soggetto che ne trae beneficio in giudizio. A maggior ragione se si considera che anche chi rende le dichiarazione potrebbe avere un interesse giuridico. Infatti, il lavoratore, proprio come nel caso di specie, potrebbe ottenere un diverso migliore inquadramento con conseguenti differenze retributive e contributive a suo favore.

A prescindere della portata e del valore delle dichiarazioni rese dinnanzi l’ispettorato del lavoro opportunamente il Giudice, nella sentenza in commento, rileva come sulla base degli elementi e dei documenti forniti in giudizio dall’Inps la domanda di diverso inquadramento sia comunque non accoglibile.

Difatti sull’Inps incombeva lo stesso onere probatorio che sarebbe ricaduto in capo ad un lavoratore in un giudizio finalizzato al riconoscimento di un inquadramento superiore rispetto a quello indicato nel contratto. Secondo il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, “ove il lavoratore affermi di svolgere o di aver svolto mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore, egli ha l’onere di dedurre e dimostrare quali siano tali mansioni e per quanto tempo sono state da lui esercitate, quali siano le disposizioni (anche contrattuali, individuali o collettive) che legittimano la sua richiesta, nonché la coincidenza fra le proprie mansioni e quelle caratterizzanti, secondo le medesime disposizioni, la qualifica superiore reclamata. Inoltre, il lavoratore ha il preciso onere di effettuare – in relazione alle mansioni espletate – una specifica comparazione fra la declaratoria della qualifica posseduta e quella della qualifica rivendicata”.

Occorre dunque passare attraverso tre fasi: l’accertamento delle mansioni effettivamente espletate (in via prevalente e continuativa), l’individuazione delle declaratorie contrattuali corrispondenti alle mansioni assegnate per contratto e a quelle effettuate, il raffronto tra i risultati delle due indagini (cfr ex plurimis Cass. sez. lavoro, sent. 22 agosto 2007 n. 17896).

Ma, come rilevato dal Giudice, nulla di tutto e ciò è stato prodotto e dedotto in giudizio da parte dell’Inps che non ha nemmeno indicato le declaratorie contrattuali sulle quali effettuare il raffronto.

Ma non solo. Qualora un contratto collettivo preveda una medesima attività di base – come può essere quella di gestione amministrativa di una società – in distinte qualifiche, in scala crescente, a seconda che tale attività sia svolta in maniera elementare o più complessa, il fatto costitutivo della pretesa del lavoratore che richieda la qualifica superiore, non è solo lo svolgimento della suddetta attività di base, ma anche l’espletamento delle più complesse modalità di prestazione, alle quali la declaratoria contrattuale collega il superiore inquadramento (cfr ex plurimis Cass. Civ. sez. lav., sent. 1 luglio 2004 n.12092).

Per ulteriori informazioni rivolgersi all’Avv. Francesco Meiffret (info@studiolegalemeiffret.it, studiolegalemeiffret@gmail.com, cell 3398177244, tel 0184532708) 

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