Cassazione Sez. Lav., 8 maggio 2019, n. 12174: Il concetto di sussistenza/insussistenza del fatto contestato nei licenziamenti disciplinari
- 9 Settembre 2019
- Avv. Francesco Meiffret
- Legal Blog
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Cassazione Sez. Lav., 8 maggio 2019, n. 12174: Il concetto di sussistenza/insussistenza del fatto contestato nei licenziamenti disciplinari
In tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare.
Testo completo sentenza commentata Cassazione civile sez. lav. 08 maggio 2019, n. 12174
Il caso
Una lavoratrice, assunta in data 26 giugno 2015 e, quindi, successivamente all’entrata in vigore del Dlgs 23/2015, impugnava dinnanzi al Tribunale di Genova il licenziamento disciplinare intimatole per essersi allontanata dal posto di lavoro chiedendo in via principale la reintegrazione sul luogo di lavoro.
La stessa ricorrente riconosceva di essersi allontanata dieci minuti dal luogo di lavoro per effettuare la pausa pranzo non consentita dal datore di lavoro nonostante turni di lavoro di dieci ore giornaliere.
Il Tribunale di Genova accertava l’illegittimità del licenziamento, ma condannava la società datrice di lavoro -peraltro rimasta contumace- al solo pagamento della tutela indennitaria poiché il fatto dell’allontanamento dal luogo di lavoro contestato alla lavoratrice si era verificato.
La lavoratrice presentava ricorso in appello. La Corte D’appello pur parzialmente modificando le motivazioni della sentenza confermava la sentenza di I grado riconoscendo che la ricorrente avesse diritto alla sola tutela indennitaria.
La lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione evidenziando l’errore di diritto della Corte d’appello che si era limitata ad accertare la sola esistenza materiale del fatto – essersi allontanata dieci minuti da lavoro- senza verificare l’antigiuridicità di detto comportamento dal momento che si trattava della pausa pranzo in un turno di lavoro di 10 ore.
Il problema che si ripropone con l’art 3 comma 2 del Dlgs 23/2015 consiste se nel licenziamento disciplinare al fine di applicare la tutela reintegratoria si debba adottare la nozione di fatto materiale contestato o quella di fatto (giuridico) contestato.
L’art. 3 comma 2 del d.lgs 23/2015 prevede, infatti, che il Giudice può, nel caso di licenziamento disciplinare, ordinare la tutela reintegratoria “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
La questione era già stata affrontata dalla Giurisprudenza a seguito delle modifiche dell’art 18 apportate con la l. 92/2012 (c.d. Legge Fornero).
L’art. 18 comma 4 prevede che “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perche’ il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Il comma 5 stabilisce che il Giudice “in tutte le altre potesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennita’ risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilita’ dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianita’ del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attivita’ economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo”.
La corrente giurisprudenziale maggioritaria (Cass. Civ., Sez. lav., sent. 13 ottobre 2015, n. 20540 , Cass. Civ., Sez. lav., sent. 20 settembre 2016, n. 18418, Cass. Civ. sez. lav., sent. 25 maggio 2017, n.13178 , Cass. Civ., sez. lav., sent. 7 febbraio 2019, n.3655) aveva accolto la nozione di “fatto giuridico contestato” come discriminate tra l’applicazione della tutela reintegratoria e quella indennitaria: il fatto contestato non deve solo essere accaduto, ma deve presentare i caratteri dell’antigiuridicità ed essere imputabile al lavoratore.
Secondo tale filone giurisprudenziale l’applicabilità della nozione di fatto giuridico trova un aggancio normativo nella locuzione “fatto contestato” che richiama una condotta che abbia rilevanza disciplinare. In altri termini il fatto deve avere connotati antigiuridici e deve essere considerato un inadempimento di una delle obbligazioni poste a carico del lavoratore dal contratto di lavoro. A sua volta la necessaria rilevanza disciplinare del fatto contestato implica che debba essere presa in considerazione l’imputabilità della condotta.
In sintesi il datore di lavoro in un giudizio volto ad accertare la legittimità del licenziamento disciplinare deve dimostrare in primis l’esistenza del fatto contestato al lavoratore, in secondo luogo l’antigiuridicità del fatto ed in ultimo l’imputabilità.
Il testo dell’art. 3 d.lgs. n. 23/2015 ha riacceso il dibattito tra i fautori della tesi del fatto materiale, comprensivo cioè unicamente di azione/omissione, evento e nesso causale e tra coloro che, invece, attribuiscono rilevanza all’antigiurdicità del fatto commesso e all’atteggiamento psicologico dell’agente, valorizzando il concetto di inadempimento.
Il Legislatore del Jobs Act ha fatto proprio l’orientamento minoritario della Suprema Corte (Cass. Civ, sez. Lav., sent. 6 novembre 2014, n. 23669) agganciando la tutela reintegratoria all’accertamento dell’insussistenza del fatto materiale contestato. Il comma 2 dell’art. 3 del Dlgs 23/2015 ha limitato la tutela reintegratoria “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale (ndr l’aggettivo materiale è, invece, assente nell’art. 18 comma 4) contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Dal tenore letterale della norma, quindi, sarebbe sufficiente l’esistenza oggettiva del fatto contestato al fine di evitare una condanna di reintegrazione del lavoratore licenziato. La tutela reintegratoria risulta ulteriormente limitata alla luce del fatto che, a differenza dell’art. 18, il comma 2 dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015 ha eliminato l’ipotesi di reintegrazione nel caso in cui il fatto abbia rilevanza disciplinare, ma nel contratto collettivo applicabile al caso concreto sia sanzionabile solamente con una sanzione di carattere conservativo. La volontà del Legislatore di rendere la tutela reintegratoria nei licenziamenti disciplinari l’eccezione alla regola della tutela indennitaria trova conferma nel divieto per il Giudice di effettuare una valutazione tra la gravità del fatto dal punto di vista disciplinare e la sanzione comminata.
A parere di chi scrive la norma in questione presta il fianco a parecchie censure e punti di difficile applicazione.
Innanzitutto il contratto a tutele crescenti lascia invariata la motivazione in base alla quale il licenziamento può essere considerato illegittimo. L’art. 1 della l. 604/1966 prevede che il licenziamento non può avvenire se non per giustificato motivo e per giusta causa. Analizzando quest’ultimo requisito, la giurisprudenza, partendo dall’art 2119 c.c., ha sempre declinato la giusta causa come un grave inadempimento che rende impossibile la prosecuzione anche provvisoria del rapporto del lavoro. Se, dunque, il presupposto è un grave inadempimento contrattuale è evidente che la nozione di fatto debba essere quella giuridica.
A ciò aggiungasi che la norma in questione creerebbe una violazione del principio di uguaglianza tra lavoratori impiegati nella medesima realtà aziendale, ma assunti prima o dopo l’entrata in vigore del Jobs Act. A fronte del medesimo comportamento illegittimo per il quale la contrattazione collettiva prevede una sanzione disciplinare conservativa del posto di lavoro, per i primi vi sarebbe la tutela reintegratoria, mentre per i secondi solo quella indennitaria.
Secondo lo scrivente la norma analizzata è altresì in contrasto anche con l’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE Cedu e con la Carta sociale Europea che prevedono il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato e che la misura riparatoria sia un serio ristoro per il danno subito dal lavoratore e abbia finalità dissuasive per il datore di lavoro.
Le censure sin qui esposte sono state sollevate dal Tribunale di Milano (per leggere il testo completo cliccare il link: Trib. Milano ord 5 agosto 2019)in relazione all’esclusione della tutela reintegratoria nei licenziamenti collettivi per i lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Jobs act. Con ordinanza pronunciata il 5 agosto 2019, Il Tribunale di Milano ha chiesto alla corte Ue di valutare se l’art. 10 del Dlgs 23/2015 non sia in contrasto con le citate disposizioni di diritto internazionale e se la norma in questione non crei un’evidente disparità di trattamento tra lavoratori impiegati nella medesima realtà produttiva.
Nel caso in cui la Corte di giustizia ritenesse valide le censure sollevate in relazione all’art. 10 del dlgs 23/2015 il passo per far valutare la non conformità del sistema sanzionatorio nel licenziamento disciplinare previsto dal Jobs Act potrebbe essere veramente breve.
Dopo questo breve digressione occorre evidenziare che la Corte di Cassazione nella sentenza in commento, seppur formalmente affermi che si debba partire dal tenore letterale della norma, ritiene che si debba fare riferimento alla stessa nozione di fatto contestato elaborata dalla giurisprudenza per quanto riguarda la tutela reintegratoria nel licenziamento disciplinare in base all’art. 18 comma 4.
Secondo la Suprema Corte non è sostenibile che il Legislatore con l’utilizzo della locuzione “fatto materiale contestato” in luogo di “fatto contestato” abbia voluto negare la reintegrazione nel caso di fatto sussistente, ma privo di illiceità in quanto inoffensivo rispetto agli obblighi posti a carico del lavoratore nei confronti del datore.
Per tale motivo, concludono gli Ermellini, al fatto accaduto, ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può logicamente riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso.
D’altronde, osserva la Corte, la norma deve essere sottoposta ad una lettura costituzionalmente orientata che comporta che in qualsiasi campo del diritto un giudizio di responsabilità non si ferma alla sola verifica dell’esistenza del fatto, ma anche all’analisi della sua antigiuridicità e alla sua imputabilità all’agente che lo ha commesso.
In conclusione rimane un altro punto dolente che nemmeno l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma può risolvere: l’impossibilità per il Giudice di effettuare un giudizio di proporzionalità tra illecito disciplinare commesso e sanzione irrogata. Se il fatto sussiste, ha carattere antigiuridico ed imputabile il lavoratore potrà solamente ottenere una tutela indennitaria, ma mai una tutela reintegratoria.
L’impossibilità di valutare la proporzione tra illecito disciplinare e sanzione comminata è in netto contrasto con l’art 4 Cost. come stabilito anche dalla Corte Costituzionale, la quale nel punto 9 della sent. n. 60 del 1991 ha affermato “il diritto a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente” e nella sentenza 541 del 2000 e nell’ordinanza n. 56 del 2006 a “non subire un licenziamento pretestuoso”.
Le critiche sin qui esposte sono state recentemente riaffermate dalla sentenza della Corte Costituzionale dell’11 novembre 2018 che, come noto, ha dichiarato incostituzionale la parte dell’art. 3 comma 1 del Dlgs 23/2015 che prevede che la tutela indennitaria sia esclusivamente parametrata all’anzianità di servizio. La Corte ha mostrato di ritenere che rigidi automatismi legislativi possano portare ad un’insufficiente tutela per il contraente debole – il lavoratore- che può essere garantito solamente mediante sanzioni a carico del datore che abbiano un’effettiva finalità deterrente rispetto a comportamenti arbitrari di quest’ultimo. E per chiudere il discorso, inutile girarci intorno, l’unico deterrente volto a prevenire licenziamenti pretestuosi è la reintegrazione che costituisce il solo rimedio volto a garantire non solo la sfera economica, ma anche la dignità del lavoratore estromesso senza un effettivo valido motivo dal luogo di lavoro.
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