Ciao, Come posso aiutarti?

CHI HA PAURA DELLE CAUSALI NEL...

CHI HA PAURA DELLE CAUSALI NEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO?

Il presente commento si struttura in due parti. Nella prima vengono evidenziate le modifiche più rilevanti apportate dal cd decreto dignità (D.l. 12 luglio 2018 n. 87 convertito con legge 9 agosto 2018 n.° 96) alla disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato. Questa è più di facile lettura e rivolta a chi vuole brevemente conoscere le principali novità apportate nel contratto a termine. La seconda, invece, è di respiro più ampio e costituisce un approfondimento nel quale si cercherà di spiegare perché fosse necessario intervenire sulla previgente disciplina del contratto a termine in quanto, a parere di chi scrive, questa evidenziava palesi profili d’incostituzionalità e aveva favorito oltre modo la precarizzazione del lavoro.

I PARTE

Le novità principali presenti nel decreto dignità per quanto riguarda il contratto a tempo determinato sono:

A) Il ritorno delle causali: La novità più rilevante è il ritorno dell’obbligo d’inserimento delle causali dopo il primo contratto a tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi. In base al novellato art. 19 del D.lgs 81/2015 nel caso in cui il contratto abbia durata superiore ai dodici mesi questo deve essere giustificato in base ad una delle seguente causali:

1) esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività, ovvero sostitutive di altri lavoratori;

2) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.

L’assenza delle esigenze indicate ai punti 1 o 2 o la stipulazione di un contratto a tempo determinato di durata superiore a dodici mesi comporta la “trasformazione” del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi (art. 19 comma 1 bis del Dlgs 81/2015).

B) La durata massima del contratto a tempo determinato: La nuova disciplina prevede una riduzione della durata massima del contratto di lavoro a tempo determinato di 24 mesi (art. 19 Dlgs 81/2015), anziché 36 mesi come previsto nella previgente disciplina

Resta salva tuttavia la possibilità, scaduti 24 mesi, di stipulare un ulteriore contratto di lavoro a tempo determinato di 12 mesi, se stipulato presso la direzione territoriale del lavoro competente (art. 19 comma 3 Dlgs 81/2015). Anche nel caso di questo ulteriore contratto di lavoro a tempo determinato devono essere indicate le ragioni oggettive a sostegno.

C) Proroghe: riduzione del numero di proroghe da 5 a 4 Il contratto acausale è prorogabile senza l’apposizione delle causali purché la durata totale del contratto, incluse le proroghe, non superi i 12 mesi. Superato tale termine è necessario indicare la presenza di una delle causali già descritte per potere rinnovare.

La mancata indicazione delle causali nelle proroghe dalle quali deriva un’estensione temporale del contratto superiore ai dodici mesi o il superamento del numero massimo di proroghe (4), comporta la conversione del contratto da tempo determinato a tempo indeterminato

D) Rinnovi: I rinnovi devono essere sempre giustificati dalle causali anche all’interno del limite temporale dei primi dodici mesi.

E) Ambito di applicazione: la nuova disciplina dei contratti a termine non si applica ai contratti di lavoro stagionali disciplinati dal D.P.R 1525/1963

F) Impugnazione stragiudiziale: il termine decadenziale per impugnare stragiudizialmente la legittimità del contratto a termine e chiedere la conversione da contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato passa da 120 a 180 giorni

II PARTE

Descritte brevemente le modifiche alla disciplina del contratto a termine introdotte con il cd decreto dignità è intenzione dello scrivente argomentare e dimostrare che l’ultimo provvedimento legislativo non fa altro che applicare un principio più volte ribadito nelle varie riforme che si sono susseguite nel diritto dei contratti di lavoro: la forma ordinaria di contratto di lavoro deve essere quella del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e la sua eccezione il contratto di lavoro a tempo determinato.

Il nostro ordinamento giuridico, come anche l’ordinamento comunitario (si veda la direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato), privilegia l’assunzione con contratto a tempo indeterminato, ammettendo solamente in ipotesi specifiche tipologie contrattuali “flessibili” come il contratto a tempo determinato.

In ottemperanza al principio comunitario presente nel punto 6 delle considerazioni generali della sopra richiamata direttiva che stabilisce che “i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori”, il nostro Legislatore, nelle ultime riforme che si sono susseguite in relazione alla disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato, ha sempre esordito con dichiarazioni d’intenti volte ad elevare il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato come la “tipologia ordinaria” di contratto di lavoro.

A dimostrazione di quanto descritto, il Legislatore del 2007, con la l. 24 dicembre 2007 n.247, aveva modificato l’art. 1 del D.lgs n. 368/2001 precisando che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” . Tale criterio di prevalenza veniva confermato anche dalla cd Legge Fornero (l. 28 giugno 2012, n. 92) e dal Dlgs 81/2015 laddove, all’art. 1, viene espressamente stabilito che “il contratto di lavoro subordinato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.

La stabilizzazione del rapporto di lavoro è la ratio sottesa anche dell’altro decreto legislativo che costituisce il c.d. Jobs act, il D.lgs 23/2015, che disciplina il contratto di lavoro a tutele crescenti e, più precisamente, le conseguenze derivanti dal licenziamento illegittimo. Senza usare giri di parole, il Legislatore riduce parte delle tutele del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rendendo la tutela reintegratoria l’eccezione e quella indennitaria la regola, al fine di rendere più agevole e conveniente la stipulazione di tale forma di rapporto di lavoro rispetto ad altre fattispecie contrattuali “atipiche”. L’obiettivo, infatti, dichiarato nella legge delega 183/2014 (comma 7, lettera b), è: promuovere, in coerenza con le indicazioni europee, il contratto a tempo indeterminato come forma comune di contratto di lavoro rendendolo più conveniente rispetto agli altri tipi di contratto in termini di oneri diretti e indiretti”.

Se questo è l’obbiettivo, pare discutibile la disciplina del decreto Poletti (d.l. 34/2014)che ha di fatto liberalizzato la possibilità di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato. Con il cd decreto Poeltti era stata, infatti, prevista l’acausalità del contratto e delle successive proroghe con sanzioni piuttosto blande nel caso di mancato rispetto di tali limiti. Invero questa disciplina doveva essere transitoria in attesa di un’organica revisione dell’intera disciplina dei contratti al fine di rendere il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la disciplina comune del contratto di lavoro. Nei fatti, il decreto Poletti è confluito nel D.lgs 81/2015 senza alcuna sostanziale modifica nella disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato. Come spesso accade in Italia quello che dovrebbe essere temporaneo diventa definitivo.

Il “decreto dignità” non fa altro che reintrodurre alcuni (e nemmeno così tanti) paletti per la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato al fine di rendere il contratto di lavoro a tempo indeterminato il contratto maggiormente utilizzato per i rapporti di lavoro. La disciplina del contratto a termine che deriva dall’ultima riforma è molto simile a quella prevista dal Dlgs 360/2001 (la norma che regolava i rapporti di lavoro a tempo determinato prima del Dlgs 81/2015) così come era stato modificato dalla legge Fornero che prevedeva la presenza di un primo contratto acausale e la necessaria indicazioone, invece, delle ragioni tecniche, organizzative, produttive sostitutive per le proroghe e i rinnovi che comportavano una durata superiore ad un anno del contratto di lavoro a tempo determinato. Ben più rigida era la disciplina dell’originario D.lgs 368/2001 e nella sua versione previgente alle modifiche avvenute nel 2012 con la legge Fornero.

Come è stato evidenziato, il Legislatore nel preambolo di ogni riforma susseguitasi in questi anni avente oggetto la disciplina dei contratti a termine, ha sempre innalzato a principio cardine del nostro sistema normativo giuslavoristico la prevalenza del contratto a tempo indeterminato rispetto a quello a tempo determinato. Tuttavia, questa dichiarazione di principio è stata sistematicamente disattesa dalla costante e progressiva liberalizzazione dell’utilizzo del contratto a tempo determinato.

Lo strabismo del Legislatore ha raggiunto l’acme nel Dlgs 81/2015. Seguendo pedissequamente l’art. 1 del Decreto legge 34/2014 (Decreto Poletti), l’art. 19 del Dlgs 81/2015 aveva cancellato qualsiasi riferimento alle ragioni di carattere tecnico, organizzativo, sostitutivo necessarie per la stipulazione di un contratto a tempo determinato.

L’art. 19 comma 2 del Dlg 81/2015 prevedeva solamente un limite di durata di 36 mesi per i contratti a temo determinato, intercorsi tra lo stesso datore e lavoratore.

L’art. 21 del Dlg 81/2015 non prevedeva alcun limite nella possibilità di stipulare rinnovi salvo il rispetto del limite di 36 mesi di durata inclusi i cd periodi di “stop and go” di 10 giorni per i contratti di durata inferiore ai sei mesi e di 20 giorni per i contratti di durata superiore ai sei mesi.

Bisogna, inoltre, evidenziare che il termine di 36 mesi non era cogente potendo essere derogato e prolungato dai contratti collettivi. La disciplina presente nel cd Jobs act non specificava se tale prerogativa era ad appannaggio esclusivo della contrattazione collettiva nazionale, finendo così per attribuire la possibilità di derogare al limite temporale descritto anche a quella territoriale e,addirittura, aziendale. La fragilità temporale del limite di 36 mesi era ulteriormente acuita dal fatto che suddetto termine di durata poteva essere ancora esteso in via individuale purché in sede “protetta” e con l’assistenza sindacale (art. 19, comma 2 e 3, D.Lgs. 81/2015): era sufficiente recarsi presso la DTL per stipulare un nuovo contratto a termine di 12 mesi. Questa ulteriore possibilità permetteva dunque che il rapporto di lavoro a tempo determinato acausale si prolungasse per 48 mesi.

L’art. 21 del Dlgs 81/2015, a differenza dell’originaria versione dell’art. 4 del D.Lgs. 368/2001 che prevedeva che “la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive”, stabiliva l’ammissibilità della proroga del contratto o dei contratti a termine susseguitesi per 5 volte, senza più far riferimento ad alcuna ragione giustificativa.

Dunque con la disciplina dei contratti a termine prima dell’emanazione del decreto dignità era possibile:

a. assumere a termine anche a fronte della più stabile delle occasioni di lavoro;

b. procedere a tale assunzione precaria per un numero illimitato di volte che possono essere anche di molte decine in caso di rapporti di pochi giorni (purché con intervallo tra l’uno e l’altro di almeno 10 giorni, o meno in base a quanto eventualmente previsto dalla contrattazione collettiva di qualsiasi livello ai sensi dell’art 19 comma 2 del Dlgs 81/2015) e con la possibilità di prorogare il contratto sino a 5 volte senza alcuna causale, e ciò, in molti casi, per tutto il corso della vita lavorativa del dipendente che avrebbe potuto passare a lavorare a termine da un datore di lavoro ad un altro.

A giudizio dello scrivente questa completa liberalizzazione del contratto a termine -oltre a tradire il principio tanto sbandierato del Jobs act di favorire in tutti i modi la stabilizzazione del rapporto e di rendere il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune del rapporto di lavoro- presentava profili d’incostituzionalità e ha determinato la stabile (quella sì) precarizzazione dei nuovi assunti.

Una ferita ai principi della nostra Carta fondamentale cagionata dalla disciplina del contratto a termine introdotta con il decreto Poletti e confermata con il Dlgs 81/2015 è desumibile effettuando un raffronto con quanto stabilito dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 41/2000 che ha affrontato il tema dell’ammissibilità del quesito referendario proprio sulla disciplina del contratto a termine. In detta sentenza, la Corte costituzionale Italiana, nel dichiarare inammissibile il referendum perché in contrasto con il contenuto della direttiva 1999/70/CE, aveva stabilito che: “La citata direttiva concerne specificamente il rapporto di lavoro a tempo determinato, e recepisce l’accordo quadro stipulato al riguardo dalle parti sociali. Tale accordo richiede che il termine apposto al contratto di lavoro sia determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. E nel contempo dispone che gli Stati membri, ove nella loro legislazione non abbiano già una normativa equivalente, debbano, non oltre il 10 luglio 2001, dettarne una diretta ad evitare l’abuso del contratto di lavoro a termine, mediante l’adozione di misure idonee ad individuare le ragioni obbiettive che giustifichino la sua rinnovazione, la durata massima dei contratti successivi, ed il numero di rinnovi possibili”. La Corte prosegue rilevando che “qualora si consideri la lettera e lo spirito della direttiva in questione (come evidenziata in chiusura del precedente punto 8.1), l’ordinamento italiano risulta anticipatamente conformato agli obblighi da essa derivanti. Infatti, proprio la legge n.230 del 1962 assoggettata a referendum, come risultante dalle successive modifiche e integrazioni, ha da molto tempo adottato una serie di misure puntualmente dirette ad evitare l’utilizzo della fattispecie contrattuale del lavoro a tempo determinato per finalità elusive degli obblighi nascenti da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in particolare circondando di garanzie l’ipotesi della proroga o del rinnovo del contratto e precisando i casi in cui il contratto prorogato o rinnovato si debba considerare a tempo indeterminato (art. 2 della stessa legge)”.

Forte di tali premesse la Corte aveva concluso l’indagine rilevando che “…Orbene, è vero che il legislatore nazionale mantiene una considerevole discrezionalità dell’attuazione della direttiva nell’ordinamento interno, ma la liberalizzazione … comporterebbe non una mera modifica della tutela richiesta dalla direttiva, ma una radicale carenza di garanzie in frontale contrasto con la lettera e lo spirito della direttiva suddetta, che neppure nel suo contenuto minimo essenziale risulterebbe più rispettata”.

Ebbene la fattispecie descritta nelle ultime righe del precedente capoverso ed allora ritenuta in insanabile contrasto con il Diritto Comunitario, è esattamente quella che si era venuta a verificare in Italia con il Dlgs 81/2015 che prevedeva:

1) la cancellazione definitiva di ogni necessario riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino l’assunzione a tempo determinato anzichè a tempo indeterminato con la conseguente equiparazione sostanziale delle due forme contrattuali e rimessione della scelta di quale applicarsi al totale arbitrio datoriale;

2) l’assenza di ogni necessario riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino la proroga consentita fino a 5 volte consecutive;

3) l’assenza di ogni limite al numero di contratti sottoscrivibili, essendo possibili anche molte decine di rinnovi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi l’assunzione precaria; l’assenza, inoltre, per larga parte dei lavoratori italiani anche di un qualsivoglia termine massimo di utilizzabilità con tale tipologia contrattuale precaria e l’assenza comunque di termini certi, in quanto anche per le tipologie contrattuali per cui la legge dispone il tetto dei 36 mesi esso è sempre derogabile tramite accordo sindacale di qualsiasi livello (quindi non solo nazionale, ma anche aziendale), da cui un numero tendente ad infinito dei possibili rinnovi e proroghe di contratti a tempo determinato privi di qualsivoglia ragione oggettiva.

E tutto ciò risulta -come puntualmente rilevato dalla stessa Corte costituzionale italiana citata- in diretto contrasto con la direttiva 99/70/Ce nella parte in cui ha recepito l’Accordo Quadro CESUNICECEEP del 18 marzo 1999. L’accordo quadro stabilisce sia nel Preambolo che nel sesto punto delle Considerazioni generali “che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”. La previgente nostra normativa recepiva solamente il preambolo proponendo nel merito una (de)regolamentazione in netto contrasto con quanto stabilito nella normativa comunitaria.

Prova di quanto sostenuto è il settimo punto delle Considerazioni generali che stabilisce “che l‘utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive è un modo di prevenire gli abusi”. Ciò significa che già solo in base a questo punto la precedente disciplina dei contratti a termine era totalmente al di fuori della della cornice normativa europea. Lo stesso punto sette prevede che l’obiettivo del presente accordo quadro è creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. Nessuno strumento veniva, invece, messo in atto dal Legislatore italiano per contrastare il proliferare dei contratti a tempo determinato a favore del contratto di lavoro a tempo indeterminato. A testimonianza di quanto sin qui censurato vi sono le rilevazioni Istat che hanno segnalato, per l’anno 2017, un aumento del 13,7% dei contratti a tempo determinato (si veda http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-12-07/istat-disoccupazione-terzo-trimestre-), mentre quelli a tempo indeterminato segnano un modesto incremento dell’1,3%.

Nel punto 1 delle definizioni, l’accordo quadro stabilisce che “il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specificoImpone quindi, tra le misure di prevenzione degli abusi, di “introdurre …norme per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”.

L’avvenuta eliminazione ad opera del D.L. 34/2014 e confermata dal Dlgs 81/2015 del primo strumento identificato nelle considerazioni generali contro l’abuso ovverosia “l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato basata su ragioni oggettive”, il tutto all’interno di un apparato normativo evanescente in materia di “durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi”, rende evidente che la normativa italiana non aveva, con le modifiche del 2014 e del 2015, raggiunto l’obiettivo comunitario di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

Nonostante il comma 1 dell’art. 1 del Dlgs 81/2015 continuasse a prevedere che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro”, per quanto sin qui argomentato era del tutto evidente che gli effetti della nuova normativa avrebbero comportato un esponenziale aumento dell’utilizzo del contratto a termine a discapito di quello a tempo indeterminato. Ed, infatti, i dati statistici lo confermano: la regola delle nuove assunzioni è stata dal 2015 ad oggi il contratto a termine e l’eccezione assoluta il contratto a tempo indeterminato.

I dubbi sollevati in tema di legittimità della disciplina del contratto a tempo determinato trovano conferma in numerosi arresti della giustizia comunitaria: al riguardo si evidenzia che la Corte di Giustizia Europea, nella causa Angelidaki (procedimenti riuniti da C378/07 a C380/07, 23 aprile 2009), relativa alla legge dello Stato Greco 3250/2004 (FEK A’124/7.7.2004) che introduceva la possibilità di assunzione a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione senza specifiche causali pur prevedendosi un termine massimo di 24 mesi e un intervallo minimo tra due contratti di “quattro mesi” (e stabilendo altresì la “reclusione sino ad un anno” oltre a provvedimenti disciplinari, del funzionario che assumesse in violazione di tale normativa), ha affermato che:

98. una siffatta disposizione, di natura meramente formale e che non giustifica in modo specifico l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi con l’esistenza di fattori oggettivi relativi alle peculiarità dell’attività interessata e alle condizioni del suo esercizio, comporta un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e, pertanto, non è compatibile con lo scopo e l’effettività dell’accordo quadro (sentenza Adeneler e a., cit., punto 72, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 91).

99 Quindi, il fatto di ammettere che una disposizione nazionale possa, di diritto e senza ulteriore precisazione, giustificare contratti di lavoro a tempo determinato successivi equivarrebbe ad ignorare la finalità dell’accordo quadro, consistente nel proteggere i lavoratori dall’instabilità dell’impiego, ed a svuotare di contenuto il principio secondo il quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro (sentenza Adeneler e a., cit., punto 73, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 92).

100. Più in particolare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato sulla sola base di una disposizione generale, senza relazione con il contenuto concreto dell’attività considerata, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, e se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto (v. le precitate sentenze Adeneler e a., punto 74, e Del Cerro Alonso, punto 55, nonché l’ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 93)”.

Se già una disciplina con un forte apparato sanzionatorio, come quella greca, era stata dichiarata in contrasto con la direttiva dei contratti a termine, ad una diversa conclusione non si può giungere per la disciplina dei contratti a termine in vigore prima delle modifiche del decreto dignità nella quale, in molte ipotesi, il mancato rispetto dei -già blandi- limiti alla stipulazione di contratti a termine comportava una modesta sanzione pecuniaria e solo in rari casi la conversione del contratto a tempo indeterminato.

Nella speranza di essere stato sufficientemente esaustivo nell’esplicare perché il decreto dignità non ha fatto altro che correggere una potenziale situazione di illegittimità nel nostro ordinamento, ritengo quanto mai opportuno analizzare le principali critiche mosse dai detrattori del decreto dignità:

1) il decreto dignità con l’introduzione delle causali aumenterà il contenzioso giudiziario che, invece, con il decreto Poletti e il Dlgs 81/2015 era notevolmente diminuito. L’aumento d’incertezza comporterà una diminuzione dei posti di lavoro e  l’aumento del turn over;

2) Le nuove causali sono di difficile applicazione.

Partiamo dalla prima critica. E’ evidente che la creazione di diritti possa comportare un potenziale aumento del contenzioso dovuto alla loro eventuale violazione e, quindi, necessaria tutela giudiziaria. Se si cancellasse, ad esempio, il diritto di proprietà o per rimanere nell’ambito giuslavoristico l’integrale disciplina della tutela dei licenziamenti, le aule dei tribunali si svuoterebbero. Ma la medicina sarebbe ancor più nociva della malattia da debellare. Credo che sia evidente che non si possa eliminare il contenzioso giudiziario aumentando così la velocità della macchina giudiziaria se la variabile che fa funzionare questa equazione è la compressione dei diritti dei contraenti deboli ovvero i lavoratori in totale spregio al contenuto dell’articolo 1 della Costituzione. La corretta via è un’altra: aumentare le risorse disponibili e, a parere di chi scrive, prevedere forme sanzionatorie per quelle controversie manifestamente infondate.

Tornando alla disciplina dei contratti a termine, se si vuole effettivamente privilegiare la stabilizzazione del rapporto di lavoro non si può fare a meno di norme che, in ossequio alla direttiva europea e alla ratio dell’organica disciplina del 2015 del rapporto e delle tutele del lavoratore, restringano tramite ragioni oggettive, l’utilizzo del contratto a tempo determinato che rimane, lo si ripete, acausale nei primi dodici mesi. I dati forniti dal Ministero del lavoro del 2017 e del I semestre del 2018 evidenziano che, una volta venuti meno gli incentivi previsti dal Legislatore per favorire l’assunzione a tempo indeterminato, la forma comune di contratto per le nuove assunzioni è stato per il 95% il contratto a tempo determinato. Ulteriori dati forniti dal Ministero del Lavoro evidenziano come i contratti a tempo determinato superiori di durata ad un anno sono un numero ridotto ed in crescente diminuzione. I dati rivelano che tra il 2015 ed il 2017 si è passati da 889 mila contratti a tempo determinato con durata inferiore a 30 giorni a 919 mila. In generale tutti i contratti a termine con durata inferiore ad un anno sono aumentati in questo arco di tempo, mentre gli unici ad essere diminuiti da 538.000 a 492.000 sono quelli con durata superiore ad un anno. Dunque anche la critica del rischio di turnover aziendale risulta essere poco attendibile. Sia concesso, inoltre, evidenziare che l’incentivo alla stabilizzazione del rapporto favorisce la formazione del lavoratore con conseguente aumento della produttività e minor rischio di incidenti sul luogo del lavoro.

I dati, quindi, parlano da soli: la precarizzazione dei nuovi assunti è stata la regola e la loro stabilizzazione l’eccezione.

Veniamo ora all’ulteriore critica generalmente mossa da coloro che censurano il reinserimento delle causali: le causali sono di difficile applicazione. Invero le causali introdotte con il Decreto dignità riflettono la ratio del contratto a termine. Se l’esigenza è temporale e non prevedibile l’assunzione a tempo determinato è legittima. Se l’esigenza è strutturale, quindi prevedibile, e non si riesce a farle fronte ad esempio con l’utilizzo di straordinari da parte della forza di lavoro in essere, questa deve essere affrontata con l’assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato.

Non c’è bisogno, inoltre, di ricordare che molti periodi di prova in base alla contrattazione collettiva si estendono sino a sei mesi. A ciò aggiungasi che i lavoratori con un’anzianità inferiore ad un anno sono licenziabili per giustificato motivo oggettivo con un rischio massimo di causa di due mensilità aumentato a sei per le imprese che soddisfano i requisiti dimensionali previsti dai commi 8 e 9 dell’art. 18. La stabilità, quindi, è sempre comunque relativa, motivo per cui chi scrive dubita fortemente che il decreto dignità, come paventato da alcune parti, possa avere l’effetto inverso, ovvero quello di generare un calo occupazionale.

Forse, e qui concludo, la paura insita in quanti coloro hanno criticato aspramente il decreto dignità è che sia mutato il fine ultimo del Legislatore che ha scelto di non occuparsi più di diritto del mercato del lavoro, ma di diritto del lavoro, invertendo la stagione legislativa degli ultimi 20 anni e andando a creare maggiori tutele per i lavoratori precari, prevedendo una normativa di maggiore rigidità (ma pur sempre di notevole flessibilità) che miri a creare rapporti di lavoro più stabili.

Avv. Francesco Meiffret

 

Le informazioni contenute nel sito hanno carattere unicamente informativo. L’avv. Meiffret non è responsabile per qualsiasi danno o problema causato da questo servizio.

Condividi articolo