IL PATTO DI PROVA NEL CONTRATTO DI LAVORO
In base all’art. 2096 c.c., al contratto di lavoro, nella fase iniziale del rapporto, può essere prevista una clausola accessoria che stabilisca un patto di prova.
La funzione tipica del patto di prova è permettere ad entrambe le parti di avere un periodo di tempo per valutare se è opportuno proseguire nel rapporto di lavoro. Proprio per questo motivo il patto di prova costituisce una delle ipotesi residuali di recesso ad nutum ex art. 2118 c.c: il datore di lavoro, durante il periodo di prova, ha la facoltà di recedere dal contratto senza dare preavviso e senza giustificare la propria decisione. Dall’altra parte anche il lavoratore può dare le dimissioni senza preavviso.
Dal momento che il patto di prova costituisce una deroga alla necessaria motivazione del licenziamento e al preavviso (salvo per le ipotesi di licenziamento per giusta causa), l’art. 10 l. 604/1966 prevede che non possa durare oltre sei mesi (o quell’altra minore durata stabilito dal contratto collettivo). Scaduto tale termine, si applica la normale disciplina del licenziamento.
Il legislatore prevede una serie di requisiti affinché il patto di prova sia valido. In base al primo comma dell’art. 2096 c.c. deve essere stipulato in forma scritta. Nel silenzio della legge, la giurisprudenza ha ritenuto la forma scritta ad substantiam actus (Cass. Sez. Lav., 03 settembre 2017; Cass. Sez. lav. 14 aprile 2001, n. 5591), cioè requisito di validità del patto di prova.
La specifica sottoscrizione del patto di prova deve avvenire anteriormente o contestualmente all’inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Tale requisito è stato interpretato in maniera rigida dalla giurisprudenza. E’ stato, infatti, considerato nullo un patto di prova sottoscritto alcune ore dopo l’inizio della prima giornata di lavoro (Cass. 24 gennaio 1994, n. 681, Trib. Milano sent. 12 giugno 2009). Stessa sorte giuridica ha avuto la previsione di un patto all’interno delle condizioni di un bando di concorso (Cass. sez. lav., 14 febbraio 1987, n. 1670). Dunque l’assenza della forma scritta costituisce un primo profilo del nullità del patto di prova.
Oltre all’assenza della forma scritta, il lavoratore può impugnare il licenziamento per dimostrare l’indeterminatezza delle mansioni oggetto della prova, lo svolgimento di mansioni diverse rispetto a quelle stabilite nel patto, l’esiguità della durata per dimostrare le proprie capacità o il raggiungimento degli obbiettivi previsti nella prova. (Si veda Cass. Sez. Lav. 10 ottobre 2006, n. 21698, Cass. sez. lav., 09 giugno 2006, n. 13455). In relazione alla determinatezza dell’oggetto della prova la Suprema Corte, in numerosi arresti, ha ritenuto sufficiente che il patto di prova si richiami alla contrattazione collettiva qualora indichi in maniera precisa le mansioni comprese nella qualifica (Cass. Sez. lav 13 settembre 2003 n. 13498, Cass. Sez. lav. 4 dicembre 2001 n. 15307).
Un’ulteriore ipotesi in cui il patto di prova è illegittimo si ferifica quando vi sia già stato un precedente rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore per lo svolgimento delle medesime mansioni (Cass. Sent. n. 17371 del 1 settembre 2015, Cass. 10 ottobre 2006 n. 21698): il datore di lavoro già conosce, in forza del pregresso rapporto di lavoro, le capacità del lavoratore e, quindi, viene meno lo scopo del patto di prova. Dall’orientamento sin qui esposto si desume che può essere previsto un patto di prova se le mansioni alle quali viene adibito il lavoratore sono differenti rispetto a quelle già svolte con il medesimo datore di lavoro.
Ulteriore requisito è la previsione della durata della prova. L’art. 10 l. 604/1966 prescrive un limite massimo di sei mesi che è considerato inderogabile, ma generalmente i C.C.N.L. stabiliscono termini inferiori a seconda delle mansioni svolte.
La giurisprudenza ha ritenuto legittima la proroga del patto di prova purché sia rispettato il termine massimo di durata previsto dalla contrattazione collettiva. Inoltre la sottoscrizione dovrà avvenire prima dello scadere del termine originario (Cass. Sez. Lav., 3 agosto 2016, n. 16214; Cass. Sez. lav. 13 marzo 1992, n. 3093; App. Firenze, 6 giugno 2008). La ragione della proroga è l’insufficienza del periodo originariamente fissato per verificare le capacità del lavoratore a causa della complessità dell’oggetto della prestazione lavorativa (Cass. Civ. Lav., sent. 19 agosto 2000 n. 8295). Argomentando a contario si potrebbe ipotizzare che la proroga non sia valida per tutte quelle mansioni ripetitive e/o esecutive che non necessitano di un ulteriore periodo per accertare la professionalità del lavoratore.
Analizzati i vari profili di illegittimità del patto di prova pare opportuno soffermarsi sulle conseguenze, ovvero quale forma di tutela il lavoratore può ottenere giudizialmente nel caso in cui il Giudice accerti la nullità del patto di prova per mezzo del quale il datore di lavoro ha interrotto il rapporto di lavoro senza preavviso e senza motivazione.
Al fine di rispondere a questo quesito occorre sin da subito evidenziare che le conseguenze mutano a seconda della data dell’inizio del rapporto di lavoro e delle dimensioni dell’organico del datore di lavoro. E’ noto che la disciplina del licenziamento è stata recentemente riformata dal Legislatore con il D.lgs 23/2015(cd Jobs Act): in sintesi per tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 si applicano le tutele crescenti in luogo della tutela prevista dall’art. 18 legge 300/1970 e dalla legge 604/1966. Senza avere alcuna pretesa di esaustività, ma al solo fine di dare un inquadramento generale, con la disciplina delle tutele crescenti viene fortemente limitata l’ipotesi di reintegrazione (ovvero l’obbligo del datore di lavoro di riammettere il lavoratore nel medesimo posto di lavoro che occupava prima del licenziamento). La reintegrazione, infatti, può essere disposta dal giudice nelle ipotesi di licenziamento orale, nullo e intimato per ragioni di disabilità fisica o psichica del lavoratore. L’unico altro caso in cui il Giudice può ordinare la tutela reintegratoria, a condizione che l’azienda soddisfi i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 commi 8-9 l. n. 300/1970, si verifica quando risulti insussistente il fatto materiale contestato al lavoratore.
Per quanto riguarda i lavoratori che godono della protezione ex art. 18 l. 300/1970 (assunti prima dell’8 marzo 2015 in imprese che soddisfano i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 commi 8 e 9 legge 300/1970) si può sostenere che un punto fermo è stato raggiunto dalla giurisprudenza con l’applicazione della c.d. tutela reintegratoria attenuata (cfr. Cass. 17528/2017): in questa sentenza la Suprema Corte ha ritenuto che il recesso in presenza di un illegittimo patto di prova sia qualificabile come un licenziamento per giustificato motivo oggettivo con manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. Il fatto manifestamente insussistente consiste nell’illegittimità di un patto di prova nel contratto di lavoro.
Nuovi contrasti sono sorti in merito alle conseguenze giuridiche nel caso di recesso illegittimo a causa di un patto di prova dichiarato nullo per quei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 all’interno di imprese che rispettano i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 l. 300/1970 commi 8 e 9.
Il punto di snodo è se qualificare il licenziamento per mancato superamento della prova come giustificato motivo oggettivo per il quale la nuova disciplina esclude in ogni ipotesi la tutela reintegratoria, ma solo quella indennitaria o come disciplinare. In quest’ultima ipotesi l’art. 3 comma 2 del D.lgs 23/2015 prevede la possibilità di ottenere la reintegrazione nel solo caso in cui si dimostri direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento disciplinare.
Il Tribunale di Milano, con la sentenza del 14 marzo 2017, ha rilevato che il mancato superamento della prova non può avere natura disciplinare.
Tuttavia lo stesso tribunale meneghino, in un caso precedente (sent. 03 novembre 2016), e il Tribunale di Torino (sent. 9 settembre 2016) hanno qualificato come disciplinare il recesso per mancato superamento della prova e applicato la tutela “reintegratoria attenuata”. Secondo il Tribunale di Milano il fatto materiale insussistente dal quale deriva l’applicazione della tutela reintegratoria è l’inesistenza di un patto di prova validamente sottoscritto da entrambe le parti prima dell’inizio del rapporto e con specifica indicazione delle mansioni. A parere di chi scrive pare arduo sostenere che dall’assenza di un patto di prova scritto derivi in automatico la natura disciplinare del recesso e, quindi, sia possibile l’applicazione della tutela reintegratoria.
Il Tribunale di Torino prospetta una diversa e più approfondita motivazione. Se la ratio del patto di prova per il datore di lavoro è valutare la professionalità e la capacità del lavoratore, il recesso per mancato superamento della prova è ontologicamente disciplinare. Una volta acclarata la nullità del patto di prova la conseguenza è la reintegrazione posto che i fatti che giustificano il recesso, di norma, non vengono descritti e, di conseguenza, devono considerasi inesistenti.
La ricostruzione della sentenza emessa dal Tribunale di Torino può permettere di sostenere che se il datore di lavoro ha, pur non essendo previsto dalla norma, tuzioristicamente motivato il recesso ad nutum, nel caso di declaratoria della nullità del patto di prova la sanzione prevista potrebbe essere quella indennitaria. La contestazione disciplinare comporterebbe l’applicazione del comma 1 dell’art. 3 del D.lgs 23/20015 a meno che sia provata l’insussistenza dei fatti materiali sui quali si fonda.
E’ opportuno precisare che l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di merito, per i lavoratori ai quali si applica il contratto a tutele crescenti ed impiegati in imprese che rispettino i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 commi 8 e 9 della l. 300/1970, propende per la sanzione indennitaria nel caso di recesso basato su un patto di prova di cui viene accertata l’illegittimità (si veda ad es. Trib Roma 6 novembre 2017, Tribunale di Firenze 12 aprile 2017, n. 376). Quest’impostazione è più che altro giustificata, a prescindere dalla natura disciplinare o di licenziamento per motivo economico del recesso basato su un patto di prova dichiarato illegittimo, dalla ratio della disciplina del Jobs act che ha inteso restringere la possibilità di ottenere una tutela reintegratoria in pochissime ipotesi stabilite dal Legislatore.
In ultimo per le imprese che non soddisfano i requisiti dimensionali previsti dall’art. 18 commi 8 e 9 l. 300/1970 l’accertamento della nullità del patto di prova comporta in ogni caso la sola tutela indennitaria a prescindere dalla data di costituzione del rapporto.
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