IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
- 13 Giugno 2020
- Avv. Francesco Meiffret
- Legal Blog
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IL TRASFERIMENTO DEL LAVORATORE
In questo commento verranno inizialmente descritti i requisiti affinché il trasferimento di un lavoratore possa essere definito legittimo. L’analisi proseguirà affrontando la tematica della cd “autotutela del lavoratore” e cioè se questi possa rifiutare un trasferimento ancor prima che un giudice abbia accertato o meno la legittimità del provvedimento datoriale con il quale è stato modificato il luogo di lavoro. Nel terzo paragrafo verrà approfondita la questione se sia ammissibile un trasferimento disciplinare e che cosa consiste il trasferimento per incompatibilità ambientale. Dopo aver descritto brevemente i rimedi giurisdizionali, in ultimo verranno illustrate le particolari tutele stabilite dal Legislatore per quanto riguarda il trasferimento di lavoratori disabili e rappresentanti sindacali in azienda.
1) DEFINIZIONE E CONDIZIONI GENERALI DI LEGITTIMITA’ DEL TRASFERIMENTO
Nel contratto di lavoro deve essere indicato il luogo dove il lavoratore deve rendere la propria prestazione lavorativa.
Tuttavia al datore di lavoro è concesso di modificare il luogo di lavoro nel corso del rapporto di lavoro. Detta prerogativa non è rimessa all’arbitrio del datore di lavoro. L’art. 2103 del c.c. prevede che il lavoratore possa essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra soltanto in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Ciò significa che affinché il trasferimento sia legittimo, è necessario che la causa giustificativa e organizzativa sia reale ed effettiva, sia per quanto riguarda l’unità produttiva di provenienza sia per quella di destinazione del lavoratore.
Oltre all’esistenza delle comprovate ragione tecniche, organizzative e produttive deve sussistere un rapporto causa effetto tra le motivazioni addotte ed il trasferimento del lavoratore.
In un eventuale giudizio spetta al datore di lavoro dimostrare sia l’esistenza delle ragioni economiche organizzative alla base del trasferimento (cfr Cass Civ sez lav. Sent del 5 dicembre 2017 n. 29054) sia il rapporto di causalità con il trasferimento del lavoratore (Cass. Civ sez. lav sent del 24 gennaio 2000 n. 24).
Il Giudice, invece, non può sindacare nel merito sulle scelte organizzative del datore di lavoro poiché queste sono espressione della libertà organizzativa privata che è garantita costituzionalmente dall’art. 41 comma 1 Cost.
Il trasferimento si distingue dalla trasferta dal fatto che nel primo il cambiamento del luogo di lavoro è definitivo, mentre nel secondo è solamente provvisorio.
Originariamente la giurisprudenza era orientata nel ritenere che il provvedimento con il quale veniva comunicato ad un lavoratore il trasferimento dovesse essere motivato solo nel caso in cui il lavoratore avesse domandato di specificare le ragioni del trasferimento (cfr. ex plurimis Cass. sez. lav. 18 marzo 2015, n. 5434). Tuttavia negli ultimi anni all’interno della Suprema Corte è prevalso un diverso orientamento, più favorevole al datore di lavoro, in base al quale il provvedimento con il quale si comunica il trasferimento non è sottoposto ad alcun onere di forma, non deve necessariamente indicare i motivi. In ultimo il datore non è nemmeno tenuto a rispondere al lavoratore che chieda di specificare le ragioni del trasferimento (Cfr Cass. Civ. Sez. lav sent. del 18 gennaio 2019 n. 1383).
In base a quest’ultimo orientamento il datore di lavoro è obbligato a motivare le ragioni del trasferimento solamente nel momento in cui il lavoratore impugna giudizialmente il provvedimento di trasferimento. A giudizio di chi scrive tale orientamento non è esente da critiche. Un provvedimento come quello che modifica unilateralmente il luogo di lavoro e che, quindi, può incidere profondamente sulla vita non solo del lavoratore, ma anche su quella della famiglia di quest’ultimo, deve essere motivato sin dalla comunicazione del trasferimento che, seppur nel silenzio della norma, dovrebbe avere forma scritta. L’obbligo di motivazione può essere implicitamente ricavato dai principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) che caratterizzano il diritto dei contratti, inclusi quelli di lavoro. Dall’altra parte l’obbligo di motivazione è, ad esempio, esplicitamente previsto dall’art.2 della legge 604/1966 che stabilisce che nella lettera di licenziamento debbano indicate le ragioni che lo hanno determinato. Sfugge a chi scrive in base a quali presupposti giuridici possa ritenersi che una decisione unilaterale che incide parzialmente sull’oggetto dl un contratto a prestazioni corrispettive possa non essere motivata.
L’interpretazione di motivare il trasferimento solo nel momento in cui il lavoratore decide di ricorrere in giudizio non ha, inoltre, natura deflattiva, ma anzi costringe il lavoratore a ricorrere in Tribunale con un ulteriore aggravio del carico giudiziario. E’ evidente che un trasferimento correttamente motivato sin dall’origine potrebbe diminuire il contenzioso in tema di trasferimenti.
Le lacune legislative delle modalità con le quali comunicare il trasferimento sono spesso colmate dai contratti collettivi nei quali sono descritte specificamente le modalità con le quali comunicare il trasferimento prevedendo inoltre un preavviso.
2) L’AUTOTUTELA DEL LAVORATORE SOTTOPOSTO AD UN TRASFERIMENTO ILLEGITTIMO
Si pone il problema se il lavoratore a fronte di un trasferimento ritenuto illegittimo sia comunque obbligato ad obbedire ed a trasferirsi oppure, anche senza un provvedimento del giudice che accerti la nullità del trasferimento, possa in prima battuta opporsi al trasferimento.
La risposta a tale quesito è rinvenibile nell’art. 1460 c.c. Il primo comma di tale articolo prevede che ciascuno dei contraenti possa rifiutarsi di adempiere se l’altro non adempie o non offre di adempiere la propria prestazione.
Un primo orientamento della Cassazione (cfr Cass. 24 luglio 2017, n. 18178) ha ritenuto che “il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 c.c. determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio”
Sulla base del presupposto che un atto nullo non produce effetti, in base a questo primo orientamento il lavoratore era sempre legittimato a rifiutare il trasferimento. Il corollario di questa interpretazione era che il licenziamento per giusta causa del lavoratore che si era rifiutato di cambiare sede lavorativa in base ad un trasferimento privo di ragioni giustificative fosse sempre illegittimo.
Tuttavia il secondo comma dell’art. 1460 c.c. prevede che una delle parti “non può rifiutarsi ad eseguire la propria prestazione se, avuto riguardo delle circostanze il rifiuto è contrario a buona fede”.
Sulla base del secondo comma dell’art. 1460 II comma l’autotutela del lavoratore che si rifiuta di obbedire ad un trasferimento ordinatogli dal proprio datore deve essere analizzata caso per caso.
La Giurisprudenza più recente della Suprema Corte in tema di rifiuto del lavoratore ad obbedire al trasferimento ha limitato la legittimità di tale comportamento solamente se il trasferimento rechi un grave pregiudizio a danno del lavoratore stesso. Occorre quindi, così come previsto dall’art 1460 c.c. II comma, che vi sia un bilanciamento tra i diritti lesi del lavoratore (quindi esigenze di vita proprie e della famiglia) e gli interessi al trasferimento del datore di lavoro esemplificabili nel corretto funzionamento dell’organizzazione aziendale (Cass. sez. lav 11 maggio 2018, n. 11408).
Secondo l’orientamento più recente (Cass Ciz Sez. lav 10 gennaio 2019, n. 434) si può ritenere che l’autotutela applicata dal lavoratore sia legittima qualora concorrano le seguenti condizioni:
a) comportamento del datore di lavoro che non motiva il trasferimento anche a seguito di richiesta di chiarimenti da parte del lavoratore;
b) distanza dell’unità produttiva presso la quale il lavoratore viene trasferito, ad esempio se il trasferimento comporta la necessità di cambiare residenza in quanto non è possibile effettuare il cd “pendolarismo”;
c) il lavoratore comunica i motivi per i quali rifiuta il trasferimento e contestualmente si offre di continuare ad eseguire la propria prestazione lavorativa presso l’unità produttiva originaria.
In altri termini bisogna considerare in base al dettato normativo dell’art. 1455 c.c. se “l’inadempimento” del datore di lavoro che ha trasferito illegittimamente il lavoratore ha scarsa importanza in relazione all’interesse di quest’ultimo di rimanere nel luogo di lavoro inizialmente indicato nel contratto.
A parere di chi scrive il licenziamento intimato a seguito del rifiuto di ottemperare ad un trasferimento nullo deve considerarsi sempre illegittimo.
E non può rilevare l’autotutela del lavoratore che si è rifiutato di adempiere ad un atto nullo. Il trasferimento privo dei requisiti di cui all’art. 2013 c.c. è nullo, privo, quindi, di effetti giuridici, motivo per cui costituisce un paradosso che il comportamento del lavoratore che si rifiuta di adempiere ad un atto nullo possa avere una qualche rilevanza giuridica e disciplinare.
3) IL TRASFERIMENTO DISCIPLINARE E PER INCOMPATIBILITA’ AMBIENTALE
Occorre ora esaminare se è possibile effettuare un trasferimento di natura disciplinare.
Sulla base del combinato disposto dell’art. 7 dello statuto dei lavoratori e dell’art. 2013 c.c., dal punto di vista dottrinale si può sostenere l’impossibilità di un trasferimento avente natura disciplinare.
L’art. 7 dello statuto dei lavoratori stabilisce tassativamente le sanzioni disciplinari che possono essere irrogate al lavoratore (richiamo orale, rimprovero scritto, multa di 4 ore e sospensione dal lavoro per 10 giorni). Lo stesso art. 7 prevede che non possano essere irrogate sanzioni che comportino un mutamento definitivo delle condizioni di lavoro, ipotesi che, invece, si verifica nel caso di trasferimento. A ciò aggiungasi che l’art. 2103 c.c. stabilisce che il trasferimento deve essere basato su comprovare ragioni tecniche, organizzative e produttive senza, anche in questo caso, prevedere finalità disciplinari (Cassazione civile sez. lav., 10/03/2006, n.5320 e Trib. Milano sent. 17 marzo 2017). In sintesi sembrava univoca dalla lettura delle due norme l’impossibilità di prevedere trasferimenti per ragioni soggettive. Tuttavia viene ammesso il trasferimento disciplinare qualora questo sia previsto dalla contrattazione collettiva.
La giurisprudenza più recente ritiene legittimo, invece. Il cd trasferimento per incompatibilità ambientale che si verifica quando il comportamento del lavoratore costituisce un elemento di disturbo dell’ambiente lavorativo.
Le pronunce che hanno affrontato la legittimità di tale ipotesi di trasferimento hanno fatto leva sulla ragione organizzative. Il trasferimento per incompatibilità ambientale viene ricondotto ad un’ipotesi di comprovata ragione organizzativa quando il lavoratore costituisce un elemento disfunzionale all’organizzazione dell’unità produttiva alla quale è stato originariamente assegnato (Cass Civ. Sez. lav. Sent. 26 ottobre 2018 n. 27226).
4) RIMEDI GIUDIZIARI AL TRASFERIMENTO NULLO
Oltre all’autotutela è possibile, anzi consigliabile, presentare ricorso al giudice del lavoro.
E’ opportuno subito rimarcare come l’art. 32, comma 3, lett. C della legge 183/2010 (il c.d. collegato lavoro) preveda, come nel caso di impugnazione ad un licenziamento, un doppio termine da rispettare.
Il lavoratore deve impugnare stragiudizialmente mediante raccomandata dallo stesso sottoscritta il provvedimento di trasferimento entro 60 giorni dalla sua ricezione. Successivamente il lavoratore devo depositare il ricorso in Tribunale entro 180 giorni.
Oltre al normale ricorso di lavoro il lavoratore in presenza di un possibile grave ed irreparabile danno a seguito del trasferimento può presentare ricorso per un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. con lo scopo di ottenere la sospensione dell’efficacia del trasferimento.
5) CATEGORIE DI LAVORATORI SOTTOPOSTI A PARTICOLARI TUTELE CHE LIMITANO LA POSSIBILITA’ DI TRASFERIMENTO.
Vi sono due categorie di lavoratori per le quali il potere di trasferimento è fortemente limitato.
La prima categoria è quella dei lavoratori portatori di handicap in situazioni di gravità ed i parenti o gli affini che lo assistono. In base all’art. 33 comma 3 della l. 104/1992 un lavoratore appartenente ad una delle ipotesi appena descritte può essere trasferito solo con il suo consenso.
E’ opportuno brevemente specificare come il nostro ordinamento abbia sempre interpretato in maniera rigida il concetto di disabilità. Solo a seguito della sentenza Corte di Giustiza Europea C-312/11 nella causa proprio contro lo stato italiano anche nel nostro ordinamento si è iniziato ad equiparare il soggetto colpito da una patologia psicofisica grave e duratura a portatore di handicap.
Successivamente tale estensione è stata adottata anche dalla giurisprudenza domestica (Cassazione civile sez. lav. – 21/05/2019, n. 13649, Tribunale Milano 2843/2019 e 2159/2017).
Sulla base di tali coordinate giurisprudenziali sarebbe corretto estendere l’applicazione dell’art. 33 della l. 104/1992 anche ai lavoratori colpiti da gravi patologie rendendo, quindi, obbligatorio il loro consenso in caso di trasferimento..
Per concludere il discorso in merito alla categoria dei lavoratori portatori di handicap, parte della giurisprudenza ha ritenuto che un’interpretazione costituzionalmente orientata della l. 104 del 1992 in base all’art. 26 della carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13.02.2006 sui diritti dei disabili, ratificate nel nostro paese del 2009, debba comportare l’applicazione delle tutele previsti dalla medesima legge nazionale anche ai soggetti portatori di Handicap non gravi. Sulla base di questa interpretazione anche nel caso di trasferimento di un lavoratore portatore di handicap non grave è necessario il consenso di quest’ultimo affinché il trasferimento sia valido (Cassazione civile sez. lav., 07/06/2012, n.9201).
L’altra categoria di lavoratori per i quali il trasferimento è fortemente limitato è quello dei rappresentanti sindacali in azienda per i quali è richiesto il nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza (art. 22 statuto dei lavoratori). L’ambito temporale di estensione della tutela si estende sino all’anno successivo dalla cessazione dell’incarico.
In ultimo il campo di applicazione dell’art. 22 dello statuto dei lavoratori è stato esteso anche ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza in base all’art. 50 del Dlgs 81/2008.