LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E LICENZIAMENTO RITORSIVO
- 31 Dicembre 2018
- Avv. Francesco Meiffret
- Legal Blog
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Il presente contributo si prefigge lo scopo di spiegare le differenze tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo e quali sono in questi casi le tutele previste a favore del lavoratore.
Per licenziamento discriminatorio si intende il recesso intimato dal datore di lavoro e determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza del lavoratore ad un sindacato, da ragioni attinenti al sesso, alla razza o da altro motivo illecito (art. 3, legge n. 108/1990; art. 4, legge n. 604/1966; art. 15, legge n. 300/1970).
La definizione di licenziamento discriminatorio si basa essenzialmente su tre norme. In particolare, l’art. 4 della legge n. 604/1966 stabilisce che “il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”.
A sua volta l’art. 15 della legge n. 300/1970 dispone che “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: […] b) licenziare un lavoratore […] a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero alla sua partecipazione ad uno sciopero”.
Infine, l’art. 3 della legge n. 108/1990 precisa che “il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 […] è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge”; tali disposizioni che si applicano anche ai dirigenti valgono anche per il licenziamento che avviene “a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso ”.
Il licenziamento ritorsivo (o per rappresaglia) si verifica quando la ragione alla base del licenziamento è la reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore (cfr. ex plurimis Cass. Civ. sez. lav., sent 03 novembre 2016, n.22323).
Parte della giurisprudenza (ad es. Cass. Civ., sez. lav., sent. 18 marzo 2011, n.6282 Cass. sez. lav., 08 settembre 2011, n. 17087) aveva sovrapposto le due fattispecie al fine di estendere le tutele previste per il licenziamento discriminatorio anche all’ipotesi di licenziamento ritorsivo.
Questa impostazione è stata abbandonata dalla giurisprudenza più recente (sul punto si veda Cass Civ. Sez. lav., sent. 5 aprile 2016, n. 6575; nel merito Corte d’appello Roma, sez. lav. Sentenza 30 gennaio 2018). Il licenziamento ritorsivo è stato ricollegato all’art. 1345 c.c., mentre quello discriminatorio trova la sua definizione nella normativa antidiscriminatoria interna ed europea.
La completa separazione delle due fattispecie ha avuto un notevole impatto pratico sulla loro applicazione. Per il licenziamento discriminatorio non deve essere presa in considerazione la volontà o meno del datore di lavoro di discriminare. La discriminazione ha carattere oggettivo, non rileva l’elemento soggettivo di chi la pone in essere. L’evoluzione in senso oggettivo della discriminazione deriva dal concetto di discriminazione in ambito europeo: essa si basa sull’effettiva esistenza di una discriminazione senza che rilevi l’elemento intenzionale. Ciò che il lavoratore deve allegare è che, a causa delle sue scelte o della sua condizione, è stato trattato in maniera differente rispetto ad un soggetto che si sia trovato in analoga situazione. E’ sufficiente che il lavoratore offra elementi precisi e concordanti dai quali si possa presupporre un comportamento discriminatorio.
Nel licenziamento ritorsivo il lavoratore deve dimostrare, invece, il motivo illecito del datore che lo intende “punire” a fronte di un suo comportamento lecito. A ciò aggiungasi che il motivo ritorsivo deve essere l’unico che ha giustificato il licenziamento. L’esclusività dell’intento ritorsivo costituisce un’altra differenza rispetto al licenziamento discriminatorio nel quale la discriminazione inficia la validità del licenziamento anche nel caso in cui concorrono altri motivi o finalità lecite a giustificazione del medesimo recesso.
La prova del licenziamento ritorsivo può essere effettuata anche tramite presunzioni e la richiesta di declaratoria di nullità del licenziamento in quanto ritorsivo non esime il datore di lavoro dal dimostrare l’esistenza della motivazione del licenziamento: “L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’ intento ritorsivo e, dunque, l’ illiceità del motivo unico e determinante del recesso” (Cassazione civ. sez. lav., sentenza 17 ottobre 2018, n.26035; Cass. Civ., sez. lav, sent. 14 marzo 2013, n. 6501).
Il fatto che il datore di lavoro non riesca a provare l’esistenza della motivazione addotta nel licenziamento costituisce un motivo in base al quale il Giudice può ritenere sussistente il motivo ritorsivo (Trib. Milano, 13 giugno 2017;Trib. Ancona, 2 maggio 2016).
Se sul piano dogmatico e probatorio sembra ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo sono due fattispecie distinte, occorre brevemente analizzare quali sono le conseguenze nel caso sia accertato che il licenziamento rientri in un di questa due tipologie.
Partiamo subito evidenziando che le conseguenze per il licenziamento discriminatorio o ritorsivo sono le stesse in quanto in entrambi casi si ha una declaratoria di nullità del licenziamento e ciò a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.
Nel caso in cui il Giudice accerti la natura ritorsiva o discriminatoria del recesso le conseguenze sono:
1)la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro occupato in precedenza;
2) la condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore. A seconda del fatto che il lavoratore sia stato assunto sino al 6 marzo 2015 o dal 7 marzo 2015 cambia l’unità di misura per la determinazione del risarcimento. Nel primo caso al lavoratore deve essere riconosciuta un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito – nel periodo di estromissione – per lo svolgimento di altre attività lavorative. Tale risarcimento, in ogni caso, non può essere inferiore a cinque mensilità. Nel secondo caso l’indennità sarà parametrata sull’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR;
3) la condanna il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali (oltre interessi, senza sanzioni) per il medesimo periodo di cui al precedente punto 2). Se il lavoratore ha svolto altra attività lavorativa, tale condanna riguarderà l’importo differenziale tra la contribuzione che sarebbe maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento, e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.
In seguito all’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto qualora il lavoratore non abbia preso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’ indennità sostitutiva della reintegrazione. Sia nel caso in cui il lavoratore sia stato assunto prima dal 7 marzo o dopo il 7 marzo 2015 il dipendente ha la facoltà di optare, in luogo della reintegrazione, per il pagamento di un’ indennità risarcitoria pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita (o dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR).
L’opzione per questa ulteriore indennità, che non è soggetta a contribuzione, comporta la risoluzione del rapporto di lavoro.
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