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Cass. Civ. Sez. Lav. ordinanza 3 maggio 2022 n. 13985: quando il lavoratore può rifiutarsi di obbedire al trasferimento senza incorrere nel rischio di un licenziamento disciplinare legittimo?

Cass. Civ. Sez. Lav. ordinanza 3 maggio 2022 n. 13985: quando il lavoratore può rifiutarsi di obbedire al trasferimento senza incorrere nel rischio di un licenziamento disciplinare legittimo?

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Massima

E’ legittimo il rifiuto al trasferimento e, pertanto, nullo il licenziamento disciplinare del lavoratore se sussistono le condizioni stabilite dall’art. 1460 c.c. II comma. La parte adempiente può, quindi, rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico nel caso in cui tale diniego sia conforme al concetto di buona fede e cioè giustificato da ragioni concrete (quali l’improvvisa comunicazione del trasferimento senza preavviso in un una sede non raggiungibile giornalmente dalla propria dimora) e sia accompagnato dalla disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria. La valutazione è rimessa al giudice di merito e, quindi, incensurabile in sede di legittimità se espressa con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici.

IL CASO

La Corte D’appello di Firenze aveva confermato la sentenza di I grado che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice che si era rifiutata di obbedire ad un trasferimento immediato ad una sede lavorativa posta a notevole distanza e fornendo contestualmente la propria disponibilità a continuare a lavorare nella sede originaria.

Avverso tale decisione presentava ricorso la società sostenendo la legittimità della richiesta di trasferimento immediato ed il successivo licenziamento disciplinare a causa del rifiuto ad ottemperare della dipendente.

Rilevava, infatti, che il trasferimento fosse basato su ragioni organizzative e che l’art. 64 del CCNL, applicato al contratto individuale della lavoratrice, permettesse il trasferimento immediato presso sedi poste a distanze notevoli purché nel periodo di preavviso, stabilito dal medesimo articolo appena richiamato del CCNL, il dipendente venisse considerato in missione con le conseguenti maggiorazioni retributive.

LA DECISIONE DELLA SUPREMA CORTE

La Suprema Corte conferma la sentenza della Corte D’appello che ha disposto l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata rilevando che il trasferimento era privo di giustificazioni e che, trattandosi di una sede posta a notevole distanza da quella originaria, avrebbe comportato un grave danno alla lavoratrice.

Ritiene, pertanto, corretta l’applicazione dell’art. 1460 c.c. da parte della lavoratrice che si era rifiuta di trasferirsi offrendosi di continuare a lavorare nella sede originaria.

Evidenzia che, anche in base al principio del cd doppia pronuncia conforme nei gradi di merito, è esente da vizi logico giuridici il capo della sentenza che aveva ritenuto insussistenti le ragioni d’urgenza per ordinare un trasferimento a notevole distanza e senza preavviso.

Posto che nessuna ragione di diritto era stata presentata, la Corte Suprema prosegue argomentando come fosse stato accertato e non contestato dalla società nei due precedenti gradi di merito, il fatto che il posto al quale era stata assegnata la lavoratrice era vacante da un notevole lasso di tempo e che, nemmeno successivamente al rifiuto, questo era stato coperto.

Sulla base di tali argomentazioni la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il rifiuto della lavoratrice in autotutela stante l’illegittimità del trasferimento intimato.

L’AUTOTUTELA DEL LAVORATORE SOTTOPOSTO AD UN TRASFERIMENTO ILLEGITTIMO

L’ordinanza in questione affronta il problema se il lavoratore, a fronte di un trasferimento ritenuto illegittimo, sia comunque obbligato ad obbedire ed a trasferirsi oppure, anche senza un provvedimento del giudice che accerti la nullità del trasferimento, possa in prima battuta opporsi al trasferimento.

La risposta a tale quesito è rinvenibile nell’art. 1460 c.c. Il primo comma di tale articolo prevede che ciascuno dei contraenti possa rifiutarsi di adempiere se l’altro non adempie o non offre di adempiere la propria prestazione.

Un primo orientamento della Cassazione (cfr Cass. 24 luglio 2017, n. 18178) ha ritenuto che il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato a normadell’art. 2103 c.c. determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio”

Sulla base del presupposto che un atto nullo non produce effetti, in base a questo primo orientamento il lavoratore era sempre legittimato a rifiutare il trasferimento. Il corollario di questa interpretazione era che il licenziamento per giusta causa del lavoratore che si era rifiutato di cambiare sede lavorativa in base ad un trasferimento privo di ragioni giustificative fosse sempre illegittimo.

Tuttavia il secondo comma dell’art. 1460 c.c. prevede che una delle parti “non può rifiutarsi ad eseguire la propria prestazione se, avuto riguardo delle circostanze, il rifiuto è contrario a buona fede”.

Sulla base del secondo comma dell’art. 1460 II comma l’autotutela del lavoratore che si rifiuta di obbedire ad un trasferimento ordinatogli dal proprio datore deve essere analizzata caso per caso.

La Giurisprudenza più recente della Suprema Corte in tema di rifiuto del lavoratore ad obbedire al trasferimento ha limitato la legittimità di tale comportamento solamente se il trasferimento rechi un grave pregiudizio a danno del lavoratore stesso. Occorre, quindi, così come previsto dall’art. 1460 c.c. II comma, che vi sia un bilanciamento tra i diritti lesi del lavoratore (quindi esigenze di vita proprie e della famiglia) e gli interessi al trasferimento del datore di lavoro esemplificabili nel corretto funzionamento dell’organizzazione aziendale (Cass. sez. lav 11 maggio 2018, n. 11408).

Secondo l’orientamento più recente (Cass Ciz Sez. lav 10 gennaio 2019, n. 434), fatto proprio dall’ordinanza qui brevemente commentata, si può ritenere che l’autotutela applicata dal lavoratore sia legittima qualora concorrano le seguenti condizioni:

a) comportamento del datore di lavoro che non motiva il trasferimento anche a seguito di richiesta di chiarimenti da parte del lavoratore;

b) distanza dell’unità produttiva presso la quale il lavoratore viene trasferito, ad esempio se il trasferimento comporta la necessità di cambiare residenza in quanto non è possibile effettuare il cd “pendolarismo”;

c) il lavoratore comunica i motivi per i quali rifiuta il trasferimento e contestualmente si offre di continuare ad eseguire la propria prestazione lavorativa presso l’unità produttiva originaria.

In altri termini bisogna considerare in base al dettato normativo dell’art. 1455 c.c. se “l’inadempimento” del datore di lavoro che ha trasferito illegittimamente il lavoratore ha scarsa importanza in relazione all’interesse di quest’ultimo di rimanere nel luogo di lavoro inizialmente indicato nel contratto.

A parere di chi scrive il licenziamento intimato a seguito del rifiuto di ottemperare ad un trasferimento nullo deve considerarsi sempre illegittimo.

E non può rilevare ai fini discilinari l’autotutela del lavoratore che si è rifiutato di adempiere ad un atto nullo. Il trasferimento privo dei requisiti di cui all’art. 2013 c.c. è nullo, privo, quindi, di effetti giuridici, motivo per cui costituisce un paradosso che il comportamento del lavoratore che si rifiuta di adempiere ad un atto nullo possa avere una qualche rilevanza giuridica e disciplinare.

Per ulteriori informazioni sul tema rivolgersi all’Avv. Francesco Meiffret (3398177244 info@studiolegalemeiffret.it studiolegalemeiffret@gmail.com

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