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Cass. Civ. Sez. Lav., sent. 13 ottobre 2021 n. 27939: un post diffamatorio su facebook verso i superiori legittima il licenziamento per giusta causa

Cass. Civ. Sez. Lav., sent. 13 ottobre 2021 n. 27939: un post diffamatorio su facebook verso i superiori legittima il licenziamento per giusta causa

Cass. civ sez. lav sent.13 ottobre 2021 n.27939

FATTO

La sentenza qui brevemente commentata costituisce solamente un altro caso di licenziamento di un lavoratore a causa di un utilizzo improprio dei social.

Un dipendente ricorre in Cassazione dopo che i due gradi di merito – Tribunale di Roma e Corte D’Appello- avevano sancito la legittimità del licenziamento per giusta causa in quanto la pubblicazione di un post denigratorio nei confronti dei propri superiori era stata considerata una condotta di grave insubordinazione.

Secondo, invece, il ricorrente la pubblicazione di post sulla propria bacheca di facebook deve essere trattato alla stregua della corrispondenza privata in quanto rivolta ad uno ristretto e limitato numero di destinatari. Sulla base di tale presupposto deduce l’inviolabilità e la segretezza di quanto pubblicato sulla propria bacheca in base all’art. 15 Cost. Che, come noto, sancisce che, salvo provvedimento giudiziario, “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Secondo la tesi difensiva del lavoratore la locuzione “ogni altra forma di comunicazione” presente nel succitato articolo della Costituzione include anche i post pubblicati sulla propria bacheca virtuale in quanto destinati ad uno stretto numero di destinatari. Proseguendo nell’argomentare viene eccepito che dalla determinatezza dei destinatari della dichiarazione derivi l’assenza del carattere diffamatorio di quanto pubblicato.

Nel secondo motivo il ricorrente eccepisce la non corretta applicazione da parte dei Giudici di merito del concetto di “grave insubordinazione” la quale deve essere esclusivamente interpretata nel rifiuto del lavoratore ad adempiere alle disposizioni impartite dai superiori.

La decisione della Corte

La Suprema Corte respinge il ricorso confermando la sentenza della Corte d’Appello e, quindi, la legittimità del licenziamento impugnato.

Evidenzia che, contrariamente ad un messaggio in una chat privata, la pubblicazione di un post su Facebook (ndr specie se visibile anche da persone non “virtualmente amiche”, ma su questo punto nulla è dato sapere in relazione al caso sottoposto alla Suprema Corte) è potenzialmente idoneo a determinare la circolazione tra un numero indeterminato di persone e, quindi, a screditare.

Anche il secondo motivo di censura consistente nell’errata interpretazione del concetto di grave insubordinazione viene disatteso dalla Suprema Corte. Gli Ermellini confermano l’interpretazione estensiva di grave insubordinazione. Essa non può essere limitata al mero rifiuto di eseguire le mansioni impartite da superiori, ma deve essere estesa a qualsiasi comportamento volto a creare un pregiudizio all’organizzazione aziendale.

Secondo la Suprema Corte pubblicare un post volto a screditare i propri superiori con termini e contenuti diffamatori, oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana riconosciute dall’art. 2 Cost., mina l’autorevolezza di quest’ultimi andando, quindi, ad incidere sull’organizzazione aziendale.

COMMENTO

Non è il primo e non sarà l’ultimo licenziamento per un uso improprio dei social network

Qui di seguito si riporteranno brevemente alcuni casi affrontati dai Giudici del lavoro in merito all’utilizzo improprio delle piattaforme social, sia sotto il profilo temporale, quindi, durante l’orario di lavoro, sia dal punto di vista contenutistico, quindi commenti aventi contenuto diffamatorio.

l’utilizzo durante l’orario di lavoro

Ad esempio il Tribunale di Cosenza, sezione Lavoro, con un’ordinanza emessa quattro giorni prima rispetto a quella della Suprema Corte, quindi in data 09 ottobre 2021 (Tribunale di Cosenza ord . 09 ottobre 2021 ) ha confermato il licenziamento di un fattorino che mentre era alla guida del veicolo aziendale utilizzava frequentemente Facebook commentando e scrivendo post.

Il datore di lavoro ha potuto facilmente accertare l’utilizzo prolungato dei social raffrontando gli orari dei post pubblicati con i fogli di viaggio firmati dallo stesso lavoratore.

Il lavoratore licenziato, oltre a non contestare l’utilizzo dei social, aveva confessato le proprie condotte, poco dopo il ricevimento della contestazione, ad un collega successivamente sentito come teste durante l’istruttoria.

Pare inoltre evidente come non sia necessario che tale condotta sia vietata dal codice disciplinare come, invece, sostenuto dal lavoratore. Costituisce, infatti, come rilevato anche dal Giudice di merito, un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità il fatto che non sia necessario che nel codice disciplinare affisso siano indicate condotte che costituiscano violazioni di norme di legge o elementari regole del vivere civile acquisite dalla coscienza sociale. In altre parole non è necessario che venga indicato nel codice disciplinare che durante l’orario di lavoro bisogna lavorare ed astenersi da condotte che possano diminuire o interrompere la produttività.

Sul punto giova precisare che è legittima la condotta del datore volta a verificare che il lavoratore non utilizzi facebook durante l’orario di lavoro. Sulla base di questo presupposto è legittima la creazione da parte datoriale di un falso profilo Facebook (in gergo catfish) volto a verificare se propri dipendenti utilizzano il suddetto programma mediante tentativi di interazioni con loro durante l’orario di lavoro di quest’ultimi.

Secondo la Suprema Corte “la condotta dell’azienda che, per accertare la commissione di un presunto comportamento illecito, crea un falso profilo su un social network, contatta il dipendente sospettato e lo induce ad una conversazione virtuale in orario e in luogo di lavoro, non è sussumibile fra quelle disciplinate dall’art. 4 st. lav. (vecchia formulazione) e rispetta i diritti di libertà e dignità dei lavoratori nonché i principi di buona fede e correttezza (Cassazione civile sez. lav., 27 maggio 2015 n.10955).

il contenuto diffamatorio di comunicazioni virtuali del lavoratore condizioni di legittimità del licenziamento

Come evidenziato nel caso analizzato dalla Suprema Corte è stato acclarato la legittimità dell’operato del datore che ha licenziato un lavoratore per un commento diffamatorio nei confronti dei propri superiori e postato sulla propria bacheca. Come già specificato in questo caso la comunicazione può raggiungere un numero imprecisato di destinatari – soprattutto se il profilo è aperto e visibile da tutti soggetti iscritti a facebook-, motivo per cui sussiste l’elemento diffamatorio.

In un caso analizzato dal Tribunale di Roma (Tribunale sez. IV Roma,sent. 08 febbraio 2020, n. 1269 ) è stato dichiarato legittimo il licenziamento di un lavoratore che ha pubblicato in più occasioni post diffamatori nei confronti di un collega tra l’altro affetto da sindrome di down.

Non è legittimo, invece, il licenziamento basato su comunicazioni virtuali destinate a raggiungere un numero determinato e limitato di persone come ad esempio quelle presenti in una chat a numero chiuso. In questo caso i contenuti dei messaggi devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile e tale caratteristica è logicamente incompatibile con i requisiti propri della condotta diffamatoria, che presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale (Si veda Cass. civile sez. lav., 10/09/2018, n.21965 che ha stabilito l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che nella chat sindacale su Facebook aveva offeso l’amministratore delegato).

Dunque il discrimine per la diffamazione ed il conseguente licenziamento disciplinare è se la comunicazione abbia come destinatari un numero determinato di persone o possa essere letta da un numero imprecisato di destinatari.

Altro elemento necessario affinché l’eventuale contenuto di un post possa essere causa di licenziamento è che lo stesso abbia natura diffamatoria e non costituisca diritto di critica

La differenza tra diritto di critica e diritto di cronaca consiste nel fatto che il primo non si limita ad una narrazione dei fatti, bensì in una ricostruzione degli stessi sottoponendoli ad un giudizio personale. Ne consegue che nella scriminante del c.d. diritto di critica non si verifica scrupolosamente la veridicità storica dei fatti raccontati, ma è necessario che gli stessi nei loro elementi essenziali siano veri o ritenuti tali per errore assolutamente scusabile e che nell’esposizione del giudizio sugli stessi non si superi il rispetto degli altrui diritti alla reputazione, all’onorabilità della persona e al decoro (Cass. Civ., Sez. III, ord. del 26 agosto 2020, n. 17802).

La possibilità nel rispetto dei criteri sopra indicati di esprimere il proprio pensiero anche attraverso le piatattaforme è ulteriormente rafforzato per quei lavoratori che svolgono anche funzioni sindacali.

In seno alla giurisprudenza sia di merito che di legittimità si è oramai consolidato l’orientamento iniziato con la sentenza della Suprema Corte sez. lav. del 25 febbraio 1986, n. 1173 in base al quale la critica sindacale ha una duplice copertura costituzionale in quanto manifestazione sia del principio di libertà di manifestazione del pensiero stabilito dall’art. 21 Cost. e sia della libertà dell’azione sindacale sindacale sancito dall’art. 39 Cost. Lo stesso diritto di critica trova altresì una tutela nell’art. 10 CEDU e nell’art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali oltre che essere ribadito dall’art. 1 dello Stat. Lav.

Sulla base di questa lettura deriva una più ampia estensione del diritto di critica del lavoratore che svolge funzioni sindacali rispetto al semplice lavoratore. Il sindacalista si pone in una posizione di pari livello con il datore di lavoro purché la critica sia finalizzata al miglioramento delle condizione lavorative della collettività dei dipendenti o per finalità relative all’esercizio dell’attività sindacale (cfr. ex plurimis Cass. Sez. lavoro, Sent. n. 11436 del 3 novembre 1995; Cass. sez. lav sent. del 10 luglio 2018 n. 18176).

Per ulteriori informazioni Avv. Francesco Meiffret: indirizzo e-mail info@studiolegalemeiffret.com tel 0184-532708, cell 3398177244 Via Matteotti 124, Sanremo (IM)

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