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CASSAZIONE 30 AGOSTO 2018 N. 2...

CASSAZIONE 30 AGOSTO 2018 N. 21438: licenziamento per giustificato motivo oggettivo. I criteri di scelta per individuare il lavoratore da licenziare

La sentenza in esame affronta la questione di quali siano i criteri di scelta che il datore di lavoro deve applicare nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (di seguito LGMO) sul presupposto della necessaria riduzione di personale quando i lavoratori siano fungibili, cioè svolgono tutti le medesime mansioni.

Un esempio pratico può essere chiarificatore: un’impresa di pulizie ha 5 dipendenti, ma, a causa di una notevole riduzione dei guadagni, il datore di lavoro deve licenziare un lavoratore. Quali criteri applicare?

La risposta dovrebbe trovarsi nella legge, ma su questo punto, il Legislatore, nonostante nella pratica quest’ipotesi risulti essere tutt’altro che inusuale, è silente.

La sentenza aderisce al consolidato orientamento in base al quale la scelta dei lavoratori da licenziare da parte del datore di lavoro, oltre a non poter essere discriminatoria, non deve essere nemmeno arbitraria e, quindi, deve essere rispettosa dei principi di correttezza e buona fede. La scelta può ritenersi ancorata ai principi appena richiamati se basata su criteri oggettivi e, per questo motivo, la Corte ritiene applicabile i criteri stabiliti dall’art. 5 della l. 223 del 1991 di anzianità e carichi di famiglia (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., 25 luglio 2018 n. 19732, Cass. Civ. Sez. Lav. 21 dicembre 2001, n. 16144;nel merito Corte d’Appello Roma, Sez. Lav, sent. 12 marzo 2018, n. 842;Tribunale Brescia, sez. lav., 02 febbraio 2018, n. 129).

In pratica l’operazione, avvallata dalla sentenza in commento, è di applicare analogicamente i criteri previsti per il licenziamento collettivo, fattispecie che si verifica quando “il datore di lavoro in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intende effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia” (si veda art. 24 comma 1 legge 223/1991).

La possibilità di applicare analogicamente i criteri stabiliti per i licenziamenti collettivi si basa sul presupposto che entrambe le ipotesi non differiscono nella causalità che giustifica il licenziamento: sussiste una scelta imprenditoriale organizzativa (ad es. dovuta ad una crisi dell’impresa) che comporta la necessità di ridurre il personale. In forza di questo orientamento, prevalente sia in giurisprudenza che in dottrina, la distinzione tra licenziamento collettivo e licenziamento per riduzione di personale sarebbe rinvenibile solamente nell’entità dei licenziamenti intimati (almeno cinque) e nella loro collocazione temporale (nell’arco di 120 giorni) (Si veda ad es. Cass. 12 agosto 2011, n. 17273).

In sintesi ogniqualvolta sia necessario ridurre i posti di lavoro tra lavoratori che svolgono le medesime mansioni, la scelta del datore deve basarsi stilando una graduatoria che tenga in considerazione i carichi di famiglia e l’anzianità, quest’ultima generalmente contestualizzata come anzianità di servizio (come nella sentenza in commento) e non anagrafica.

Sempre in relazione ai criteri da adottare per individuare i lavoratori da licenziare è opportuno precisare che le stesse sentenze che applicano i criteri stabiliti dall’art.5 legge 223 del 1991 lasciano spazio alla possibilità di utilizzo di altri criteri purché siano oggettivi e misurabili. Uno di questi è, ad esempio, quello della maggiore produttività per individuare quale lavoratore mantenere in servizio e quale, invece, licenziare. La sentenza della Corte di cassazione del 7 dicembre 2016 n. 25192 aveva ritenuto legittima la scelta dell’impresa di licenziare il lavoratore che, in virtù della sua anzianità di servizio, comportava maggiori costi dal punto di vista retributivo, era risultato il meno produttivo ed era titolare anche di altri redditi.

Il criterio della maggiore produttività era stato accolto, in astratto, anche dalla Corte D’appello di Firenze nella sentenza del 20 ottobre 2016 seppur ritenuto non legittimo nel caso esaminato. La Corte d’appello riteneva, infatti, il criterio della maggiore produttività una valida motivazione per l’individuazione dei lavoratori da licenziare purché fosse oggettivamente rilevabile. Oltre alla possibile misurazione del rendimento, la Corte stabiliva che la differente capacità produttiva dei lavoratori non doveva essere imputabile ad una carente formazione da parte del datore di lavoro. Per questo motivo la Corte d’Appello aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore più anziano rispetto a quello più giovane. Era emerso, infatti, che a seguito di alcune modernizzazioni sul sistema produttivo, il datore di lavoro aveva omesso di formare i dipendenti sull’utilizzo dei nuovi strumenti di lavoro. I lavoratori più giovani, tuttavia, erano riusciti più facilmente ad adattarsi alle innovazioni rispetto a quelli più anziani che, quindi, nell’ultimo periodo erano risultati meno produttivi.

Per concludere questa analisi sui criteri adottati dalla giurisprudenza per individuare il lavoratore da licenziare in presenza di più dipendenti che svolgono mansioni fungibili, un’interessante sentenza è quella del Tribunale di Bari del 03 novembre 2016 che ha ritenuto legittima la scelta di quale lavoratore da licenziare basata sulla maggiore facilità di reinserimento nel mondo del lavoro e sul possesso di redditi diversi rispetto a quelli da lavoro in grado, quindi, di contrastare più facilmente le conseguenze economiche negative derivanti da un’eventuale prolungato stato di disoccupazione.

TESTO SENTENZA CASSAZIONE 30 AGOSTO 2018 N. 21438

1. C.F. impugnò il licenziamento intimatogli dalla Tavolobello s.r.l. in data 21 dicembre 2012 chiedendone l’annullamento ed il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione di 15 mensilità ovvero il risarcimento del danno da quantificarsi in 14 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita oltre che la condanna della società a corrispondergli la somma di Euro 5.320,94 a titolo di differenze retributive in relazione all’illegittima sospensione per CIG nel periodo dal 26.9.2011 al 31.12.2012.

2. Il Tribunale di Siena rigettò la domanda mentre la Corte di appello di Firenze, pur esclusa la natura discriminatoria del recesso, lo ritenne illegittimo evidenziando che la società datrice, che ne era onerata, non aveva dimostrato le ragioni per le quali la scelta del dipendente da licenziare era caduta sul C. e non piuttosto su altri lavoratori che svolgevano le medesime mansioni e che avevano una minore anzianità di servizio. Per l’effetto, insussistente il requisito dimensionale per l’applicazione della tutela reintegratoria, in applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 8, condannò la datrice di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata in sei mensilità della retribuzione globale di fatto. Inoltre il giudice di appello accolse la domanda del lavoratore di condanna della società a risarcire il danno conseguente alla protratta sospensione sul rilievo che la società non avesse provato l’esistenza di ragioni produttive che giustificassero la mancata rotazione in CIG.

3. Per la Cassazione della sentenza ricorre la T. s.r.l. articolando tre motivi ai quali resiste con controricorso C.F..

Diritto

4. Con il primo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.1. Sostiene la ricorrente che nel corso del giudizio sarebbe stato provato che per far fronte alla crisi aziendale si era soppresso il ramo falegnameria, a cui faceva capo la posizione lavorativa del C., avendo la società privilegiato, nella prosecuzione dell’attività, l’utilizzo di semi lavorati e salvaguardato quindi il settore verniciatura. Conseguentemente non potevano essere licenziati i due dipendenti addetti a quel reparto, Ci. e F., entrambi verniciatori mentre era accertato che il C. non aveva mai lavorato al reparto verniciatura e non ne possedeva le necessarie competenze. Evidenzia la ricorrente che tutti questi fatti non sono stati valutati dalla Corte territoriale che, se li avesse presi in esame, sarebbe pervenuta ad una conclusione diversa.

5. Il motivo è inammissibile.

5.1. Occorre premettere che a seguito delle modifiche apportate all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, (conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012), il vizio denunciabile per cassazione è limitato all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, il quale abbia costituito oggetto di discussione tra le parti ed abbia carattere decisivo, vale a dire sia idoneo a determinare un esito diverso della controversia (cfr. Cass. 04/10/2017 n. 23238 e già s.u. 07/04/2014n. 8053). E’ precluso l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione a fini istruttori (Cass. 21/10/2015 n. 21439) e la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. 09/06/2014 n. 12928).

5.2. Nessuna di tali evenienze è ravvisabile nel caso in esame in cui la Corte di appello ha motivatamente escluso che in esito alla riorganizzazione dell’attività vi fosse stata la soppressione del reparto falegnameria avendo accertato, sulla base dei fatti allegati e delle prove offerte, che vi era stata una mera riduzione dell’attività che la società aveva ritenuto di ridimensionare privilegiando alcuni settori di attività (verniciatura) ma senza del tutto abolirne altri (falegnameria).

5.3. La censura, non segnala la pretermissione di un fatto storico che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso del giudizio ma pretende, piuttosto, da questa Corte un diverso apprezzamento delle emergenze istruttorie che non è consentito a questo giudice.

6. Con il secondo motivo di ricorso è denunciato, ancora una volta, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, con riguardo alla condanna della società a risarcire il danno conseguente al mancato inserimento del C. nella rotazione durante il periodo di Cassa integrazione. Sostiene la società che dalle prove testimoniali era emersa l’avvenuta soppressione del settore falegnameria. Inoltre, dalle prove documentali, in particolare dallo “schema verbale di accordo”, si sarebbe evinto che gli stessi sindacati avevano concordato nell’esistenza delle ragioni poste a fondamento della scelta di ricorrere alla CIG e che l’impegno assunto dalla società con l’accordo non prevedeva criteri di rotazione vincolanti ma solo un generico impegno ad effettuare “una rotazione tra i dipendenti la più equilibrata possibile” tanto che altri lavoratori addetti alla falegnameria erano stati sospesi.

7. Anche tale censura è inammissibile alla luce delle considerazioni già esposte con riguardo al primo motivo di ricorso. La corte territoriale con valutazione di merito a lei riservata ha accertato che la società aveva assunto impegni di rotazione poi non rispettati e che non aveva provato le ragioni dell’inadempimento non senza verificare che vi erano altri lavoratori, addetti alle stesse mansioni del ricorrente, che non furono mai sospesi. Ne consegue che non è in concreto ravvisabile la denunciata omessa valutazione di un fatto decisivo essendo stato piuttosto sollecitato un diverso esame dei fatti non consentito al giudice di legittimità.

8. Con il terzo motivo di ricorso ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 5, e dell’art. 41 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

8.1. Sostiene la ricorrente che diversamente dal precedente invocato dalla Corte di appello nel caso di specie il licenziamento non era occasionato da una riduzione di personale omogeneo e fungibile ma, piuttosto, dalla soppressione di un settore di attività, il solo a cui il lavoratore era stato addetto, sicchè il richiamo alla L. n. 223 del 1991, art. 5, non sarebbe stato conferente ed inoltre si sarebbe posto in contrasto con la giurisprudenza, prevalente, che ravvisa un giustificato motivo di licenziamento anche nel riassetto organizzativo dell’impresa ai fini di una sua più economica gestione.

9. La censura è infondata.

9.1. Va qui ribadito, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 20/10/2017 n. 24882, 05/01/2017 n. 160, 13/06/2016 n. 12101 e 22/03/2016n. 5592), che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost.. Ai fini del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la L. n. 604 del 1966, art. 3, richiede: a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, senza che sia necessaria la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso; b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali – insindacabili dal giudice quanto ai profili di congruità e opportunità, purchè effettivi e non simulati – diretti ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad incremento di redditività; c) l’impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, che non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L’onere probatorio in ordine alla sussistenza di questi presupposti è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili. Del pari (cfr. Cass. 28/03/2011 n. 7046) si è rilevato che quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili nè il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, nè il criterio della impossibilità di repechage (in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili). Non è, tuttavia, vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera: essa, infatti, risulta, limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza cui deve essere informato, ex artt. 1175 e 1375 c.c., ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una di esse (Cass. 21.12.01 n. 16144). In questa situazione, pertanto, nella giurisprudenza si è posto il problema di individuare in concreto i criteri obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di correttezza e buona tede (Cass. 6.9.03 n. 13058) e si è ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la L. n. 223 del 1991, all’art. 5, ha dettato per i licenziamenti collettivi per l’ipotesi in cui l’accordo sindacale ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi. Conseguentemente si è ritenuto che possano essere presi in considerazione, in via analogica, i criteri dei carichi di famiglia e dell’anzianità atteso che non assumono rilievo le esigenze tecnico – produttive e organizzative, data la indicata situazione di totale fungibilità tra i dipendenti, (cfr. Cass. n. 16144 del 2001 cit. e anche Cass. 11/06/2004 n. 11124).

9.2. E’ nel perimetro tracciato dalle pronunce sopra richiamate che si è mossa la Corte territoriale la quale ha accertato che lo specifico settore al quale era addetto il C. era stato soppresso; che era residuata comunque in altri settori la necessità dello svolgimento di mansioni di falegnameria; che vi erano diversi dipendenti che al pari del C. svolgevano le dette mansioni e quindi, in corretta applicazione dei principi sopra ricordati, ha verificato che la società datrice che ne era onerata non aveva offerto la prova delle ragioni per le quali era proprio la posizione lavorativa del C. a dover essere soppressa avendo omesso di porre a raffronto il suo profilo con quello di altri lavoratori con le medesime mansioni.

9.3. Va quindi ribadito che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ravvisato nella soppressione di un posto di lavoro in presenza di più posizioni fungibili perchè occupate da lavoratori con professionalità sostanzialmente omogenee, ove non sia utilizzabile il criterio dell’impossibilità di “repechage”, il datore di lavoro deve individuare il soggetto da licenziare secondo i principi di correttezza e buona fede e, in questo contesto la L. n. 223 del 1991, art. 5, offre uno “standard” idoneo ad assicurare una scelta conforme a tale canone, ma non può escludersi l’utilizzabilità di altri criteri, purchè non arbitrari, improntati a razionalità e graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati (Cass. 07/12/2016 n. 25192, 08/07/2016n. 14021).

10. In conclusione, per le ragioni su esposte, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

PQM
P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4500,00 per compensi professionali, e 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 agosto 2018

 

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