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Corte D’appello di Milano: e’ discriminatorio negare il congedo parentale al genitore intenzionale di una coppia omosessuale

Corte D’appello di Milano:  è discriminatorio negare il congedo parentale al genitore intenzionale di una coppia omosessuale

Corte d’appello di Milano, 17 marzo 2021

DESCRIZIONE DEI FATTI

Una società a capitale pubblico di Milano presenta appello contro l’ordinanza emessa dal Tribunale di Milano, sezione Lavoro ex art. 702 quater cpc (Trib. Milano. ord. Sez. Lav. 12.11.2020 ) che aveva accertato la propria condotta discriminatoria nei confronti di una dipendente. Nello specifico il Giudice di prime cure aveva riconosciuto come discriminatoria la scelta dell’azienda di non concedere il congedo parentale ad una propria lavoratrice, madre intenzionale di una bambina avuta con la propria compagna tramite procreazione medicalmente assistita eseguita all’estero.

In particolare la condotta discriminatoria nei confronti della coppia di genitori omosessuali rispetto ad una coppia eterosessuale, consisteva nell’aver sindacato sulla legittimità e la correttezza del riconoscimento della qualità di genitore intenzionale presente nel certificato dello Stato civile rilasciato dal Comune di Milano. Poiché per ottenere il congedo è sufficiente produrre documentazione attestante lo status di genitore, secondo il Giudice di I grado, il datore di lavoro mai avrebbe opinato sulla validità di tale documentazione dinnanzi ad una copia eterosessuale.

La discriminatorietà, contrariamente alla tesi della difesa della società datrice di lavoro, appariva ancor più manifesta alla luce del fatto che la lavoratrice omosessuale, per poter trascorrere del tempo con il proprio figlio, aveva dovuto richiedere un periodo di aspettativa non retribuita.

Per questo motivo il Giudice condannava l’appellante a riconoscere il congedo parentale, a pubblicare la sentenza sul proprio sito e a versare alla lavoratrice € 1707,27 a titolo di danno patrimoniale consistente nella perdita di reddito derivante dalla mancata concessione del congedo.

Rigettava, invece, la domanda della lavoratrice volta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale e quella avente come petitum il riconoscimento del congedo per malattia del figlio posto che non era sussistente lo stato morboso di quest’ultimo al momento della presentazione al datore di lavoro della richiesta e la stessa era stata inoltrata al fine di ottenere un’autorizzazione per gli eventi futuri.

L’appello si basa su un unico motivo basato sulla legittimità dello stato civile rilasciato dal Comune di Milano nel quale era stato riconosciuto il vincolo genitoriale intenzionale e non biologico della lavoratrice.

La società appellante eccepisce l’illegittimità dello stato civile rilasciato alla ricorrente poiché l’atto di riconoscimento, così come disciplinato dagli artt. 250 e 254 c.c., sarebbe esclusivamente riservato al padre e alla madre, escludendo quindi, la figura del genitore intenzionale o sociale come nel caso di cui trattasi. Rimarca l’illegittimità della procreazione medicalmente assistita tra coppie dello stesso sesso, così come sancito dall’art. 5 della legge 40/2004 ed, in ultimo, rileva come le disposizioni in materia di filiazione siano escluse tra quelle applicabili alle unioni civili ex l. n. 76/2016 fra persone dello stesso sesso

La società prosegue le proprie argomentazioni volte a riformare l’ordinanza rilevando come il Giudice di I grado, qualora fosse stato convinto dell’incostituzionalità della legge 76/2016 nella parte in cui non permette il riconoscimento di figli nati da una coppia dello stesso sesso, avrebbe dovuto sollevare la questione di costituzionalità.

Anche la lavoratrice deposita appello incidentale chiedendo l’accertamento della condotta discriminatoria in relazione al preventivo e programmatico diniego espresso in merito alla concessione dei congedi nel caso di malattia del figlio.

Domanda, inoltre, accogliersi il risarcimento per danno non patrimoniale respinto, invece, dal Tribunale di Milano.

LE QUESTIONI AFFRONTATE DALLA CORTE D’APPELLO

Le prima questione affrontata dalla Corte d’Appello è se sia da confermare la natura discriminatoria del diniego del congedo parentale a favore della lavoratrice genitore intenzionale.

La seconda questione è se sia possibile anticipare la soglia di applicazione della tutela antidiscriminatoria dinnanzi ad affermazioni per così dire programmatiche. In altri termini se la comunicazione del datore di lavoro con la quale ha dichiarato che non concederà alla lavoratrice futuri congedi per assistere il figlio malato sia idonea a dissuadere la lavoratrice dall’esercitare in futuro tale diritto.

LE SOLUZIONI FORNITE DELLA CORTE D’APPELLO

La Corte D’appello rigetta integralmente il ricorso principale ed accoglie, invece, quello incidentale della lavoratrice accogliendo le altre richieste respinte in primo grado.

Partendo dalla richiesta di congedo parentale, oltre a fare proprie le motivazioni dell’ordinanza impugnata, rileva, innanzitutto, come non sussista in capo al datore di lavoro un potere di sindacare la legittimità di un certificato di stato di famiglia. Così come, sempre il datore di lavoro, non rientra tra i soggetti legittimati, ai sensi dell’art. 263 c.c., ad impugnare il riconoscimento del figlio per difetto di veridicità dell’atto. Sul punto la Corte D’appello si richiama alla sentenza della Suprema Corte n. 2515 del 16 marzo 1994Nell’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, l’espressione “chiunque vi abbia interesse”, usata dall’art. 263 c.c. per indicare i soggetti che vi sono legittimati, non può ritenersi comprensiva del P.M., essendo essa riferibile ai soli soggetti privati che abbiano un interesse individuale qualificato (concreto, attuale e legittimo) sul piano del diritto sostanziale, di carattere patrimoniale o morale, all’essere o al non essere dello status, del rapporto, dell’atto dedotto in giudizio (ad es. gli eredi e i parenti di chi risulti il genitore legittimo o l’autore del riconoscimento, colui che allega di essere il vero genitore ecc.), con la conseguenza che trova applicazione, in mancanza di una deroga esplicita, la regola generale prevista dall’art. 70 n. 3 c.p.c., secondo la quale nelle cause riguardanti lo stato e la capacità delle persone il P.M. deve (soltanto) intervenire sotto pena di nullità, e non può, quindi, (anche) esercitare l’azione e proporre impugnazione, senza neppure essere legittimato a proporre domande nuove o riconvenzionali, che comportino l’obbligo ex art. 292 c.p.c..”

Rileva, inoltre, come la questione attinente lo stato giuridico di una persona non sia tra quelle accertabili incidentalmente se il soggetto, come il datore di lavoro, non rientra il novero dei soggetti legittimati ad impugnare la veridicità del riconoscimento (Cass. 2220/1980).

Alla luce di quanto sopra la Corte d’Appello conferma come nel caso di specie vi sia stata una discriminazione diretta della lavoratrice in base al proprio orientamento sessuale.

Si rammenta che in base all‘art. 2 lett. a) del Dlgs 216/2003 la discriminazione diretta si ravvisa qualora per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o orientamento sessuale, una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga.

Nella successiva lett. b) è stabilito che per discriminazione indiretta si intende una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri, ma possono mettere le persone che professano una determinata religione o convincimento personale, le persone portatrici di handicap le e persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre.

La Corte D’appello, inoltre, come anticipato, accoglie anche il ricorso incidentale della ricorrente.

Il diniego preventivo, infatti, alla concessione del congedo di un mese nel caso di futuri eventi morbosi del figlio ha efficacia dissuasiva nei confronti della lavoratrice nell’esercitare tale richiesta in presenza di malattie della prole. La Corte evidenzia come la portata discriminatoria di dichiarazioni programmatiche sia sta accertata dalla giurisprudenza di legittimità in un recente arresto (Cass. 15.12.2020, n. 28646) oltre che in un precedente caso affrontato dalla stessa Corte D’Appello di Milano (sentenza n. 1003/17).

In ultimo la Corte accoglie la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale quantificandolo in via equitativa in € 5000,00. Contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza, rileva come siano stati violati diritti di primaria importanza come quello di non essere discriminato per i propri orientamenti sessuali ed il diritto alla famiglia nel caso di cui trattasi enucleato nel non ostacolare il rapporto genitore figlio. Riconosce la doglianza della ricorrente che aveva dichiarato che il comportamento del datore di lavoro era stato percepito come un ostacolo a “vivere la propria genitorialità su un piano di uguaglianza” rispetto alle coppie eterosessuali.

La Corte D’appello rammenta, inoltre, come la Cassazione a Sezioni Unite abbia stabilito come il risarcimento nel caso di condotta discriminatoria non svolga la sola funzione di compensare il danno patrimoniale subito, ma abbia anche una funzione punitiva volta a scoraggiare la ripetizione di tali condotte (Cass. Sezioni Unite, sent. 5 luglio 2017, n. 16601).

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

A parere di chi scrive la sentenza della Corte D’appello è ineccepibile sia sul piano logico che su quello giuridico.

In merito alla mancata concessione del congedo parentale occorre brevemente aprire una riflessione alla luce della normativa e delle recenti pronunce giurisprudenziali sulla filiazione di coppie omosessuali.

Allo stato attuale, sulla scorta della legge 76/2016 sulle unioni civili dello stesso sesso la quale non disciplina l’istituto della filiazione, sia la Corte Costituzionale (237/2019) che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (12193/2019) non hanno riconosciuto l’esistenza di un vero e proprio diritto alla filiazione delle coppie omosessuali. Cionondimeno la stessa giurisprudenza sin qui citata ha affermato che non sussiste alcuna ragione di ordine pubblico per non trascrivere certificati di nascita formati all’estero con duplice genitorialità femminile.

Peraltro nell’ipotesi di cui trattasi non entra solo in gioco il diritto delle coppie omosessuali a non essere discriminate, ma anche quello del figlio minore di tali coppie ad avere una relazione personale stabile con entrambi i genitori. Sul punto si rammenta che la legge 27 maggio 1991, n. 176, che ha ratificato nel nostro ordinamento la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ha stabilito che l’interesse superiore del minore deve avere carattere preminente in qualsiasi decisione che lo riguardi (art 3).

Non vi è chi non veda che la mancata concessione del congedo parentale e di quello per malattia di uno dei due genitori vada ad incidere negativamente sullo sviluppo psicofisico della prole, motivo per cui, a parere di chi scrive, anche sulla base di questo motivo la decisione del datore di lavoro deve essere censurata.

Venendo alla discriminatorietà della dichiarazione “programmatica” di non voler concedere il congedo dinnanzi a futuri eventi morbosi del figlio, ciò che rileva è la potenziale discriminatorietà dell’atto o della condotta. Sul punto occorre qui brevemente richiamare la sentenza della Grand Chambre della Corte di Giustizia del 23 aprile 2020 C.507/2018, il cd caso Taormina, chiamata ad affrontare se abbia un’effettiva valenza discriminatoria la dichiarazione del noto penalista di non voler assumere collaboratori omosessuali anche se era stato accertato che nel momento in cui era stata effettuata tale dichiarazione il suo studio non era alla ricerca di nuovo personale. Quel che è stato rilevato dalla Corte di Giustizia è la possibilità che sussista “una discriminazione da scoraggiamento”. In altri termini è possibile che alcuni soggetti non individuabili abbiano rinunciato ad esercitare un proprio diritto proprio a causa di un comportamento, di una dichiarazione o di una norma di carattere discriminatorio. Questo principio era già stato espresso in una precedente pronuncia della Corte di Giustizia (Corte di Giustizia CE, Sez. 2, 10 luglio 2008, C 54/07, sentenza Feyrin). Nel caso richiamato i giudici di Lussemburgo avevano statuito che le dichiarazioni pubbliche di un datore di lavoro sulla sua intenzione di non assumere immigrati costituissero una discriminazione anche in assenza di una vittima identificabile.

In ultimo è opportuno altresì rilevare, anche alla luce dell’attuale dibattito in merito all’approvazione del noto disegno di Legge Zan avente oggetto “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’idenità di genere e sulla disabilità” che la libertà di manifestazione del pensiero non è un diritto assoluto. Essa può essere sottoposta a limiti nel rispetto del principio di proporzionalità, quando questa possa andare a violare diritti di primaria importanza di altri soggetti.

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