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Demansionamento: il lavoratore...

Demansionamento: il lavoratore può rifiutarsi di svolgere mansioni di livello inferiore?

Demansionamento: il lavoratore può rifiutarsi di svolgere mansioni di livello inferiore?

Cass. Sez. Lav., ord. 18 ottobre 2022 n. 30543

I FATTI DI CAUSA

Una società ricorre in Cassazione dopo che sia il Tribunale di I grado che la Corte d’appello di Roma avevano accertato l’illegittimità del licenziamento intimato il 5 settembre 2014 ad una propria dipendente con la qualifica di cuoca ed impiegata in un servizio di mensa scolastica, rea di essersi rifiutata di consegnare le merendine.

La dipendente si era opposta in quanto tale mansioni non rientravano tra quelle richiedibili ad una cuoca.

La società aveva ritenuto che a tale comportamento fosse applicabile l’art 192 del CCNL turismo pubblici servizi che sanziona il rifiuto del lavoratore a svolgere le mansioni rientranti nella propria qualifica con il licenziamento per giusta causa.

La Corte D’appello Sezione lavoro di Roma, con sentenza n. 2085 del 15 maggio 2019, aveva confermato integralmente quella di I grado che aveva ritenuto il licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto contestato con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 comma 4 della l. 300/1970.

Rilevava la Corte che l’art. 192 del CCNL turismo pubblici servizi sanzionava esclusivamente “il rifiuto di eseguire compiti ricadenti nell’ambito delle mansioni afferenti alla qualifica di inquadramento” La lavoratrice, invece, non aveva accettato di svolgere mansioni di livello inferiore.

La Società presentava ricorso in Cassazione presentando 8 profili di illegittimità della sentenza della Corte d’appello.

Il più rilevante è il primo. La società si duole della falsa applicazione degli articoli 2014 c.c., 2086, 1460 e 1375 c.c., dell’art. 41 Cost. e dell’art. 192 CCNL pubblici servizi, degli artt. 115 e 116 cpc e dell’art 384 c.p.c., per violazione del principio di diritto in relazione all’art. 360 cpc.

Sul presente caso, infatti, si era già pronunciata la Suprema Corte con sentenza del 3 ottobre 2018, n. 24118. In tale sentenza la Suprema Corte aveva parzialmente accolto le doglianze della società datrice di lavoro, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione per decidere nuovamente sulla base del presente principio di diritto: “l‘illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell’assegnare il dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, purché tale reazione sia connotata da caratteri di positività, risultando proporzionata e conforme a buona fede, dovendo in tal caso il giudice adito procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti (Cass civile sez lav. Sent. 8 agosto 2003 n. 12001) .

La suprema Corte aveva rilevato come la Corte D’appello si fosse limitata a valutare la non applicabilità dell’art. 192 ccnl senza verificare se vi fosse stata, ex art. 1460 c.c., proporzionalità tra l’inadempimento datoriale, che aveva adibito la lavoratrice a mansioni inferiori, ed il comportamento di quest’ultima che in via di autotutela si era rifiutata di obbedire agli ordini a lei impartiti.

Secondo la società ricorrente la Corte d’appello, neanche a seguito del rinvio, si era uniformata al principio di diritto sopra enunciato omettendo di valutare se vi fosse stata proporzionalità tra il presunto proprio comportamento illegittimo e la reazione della lavoratrice.

LA DECISIONE DELLA CORTE

La Corte respinge il ricorso confermando la sentenza della Corte d’Appello che aveva disposto la reintegrazione della lavoratrice.

Nell’ordinanza rileva come la Corte D’appello di Roma, nella sua seconda sentenza, si sia uniformata al principio di diritto della precedente sentenza della Cassazione con rinvio.

Partendo dall’analisi dell’art. 1460 c.c. ritiene legittimo il mancato adempimento della mansione inferiore di consegna delle merendine.

La Suprema Corte rileva come la Corte D’appello di Roma nella seconda pronuncia non si fosse limitata ad una diversa interpretazione rispetto a quella fornita da parte datoriale in merito all’estensione del campo d’applicazione dell’art. 192 del CCNL. Rileva come la Corte d’appello avesse analizzato il comportamento delle parti. Risultava provato che ricorrente avesse cercato un confronto aziendale al fine di trovare una soluzione di carattere organizzativo senza avere alcun riscontro. Parte datoriale, inoltre, non aveva fornito prova del fatto che effettivamente la ricorrente si fosse rifiutata, negli episodi descritti nella contestazione disciplinare, di consegnare le merendine. Dunque non era corretta la doglianza di parte ricorrente in basa alla quale la ricorrente fosse stata rea di ripetuti episodi d’insubordinazione anche perché non risultava provato uno specifico ordine in tal senso. Dall’altra parte risultava provato che sempre la società datrice di lavoro avesse adibito la ricorrente a mansioni di livello inferiore rispetto alla propria qualifica in base ad una necessità di carattere organizzativo prevedibile e non di carattere straordinario.

In ultimo conferma l’interpretazione della Corte d’appello in base alla quale l’art. 192 del CCNL turismo e pubblici servizi fosse applicabile solo nel caso di rifiuto ingiustificato a svolgere le mansioni all’interno della propria qualifica. Nel caso di specie la ricorrente non aveva voluto svolgere mansioni di livello inferiori. Pertanto è corretta, anche sotto questo profilo, l’applicazione dell’art. 18 stat lav. Comma 4 poiché l’insussistenza del fatto contestato comprende sia l’ipotesi del mancato compimento della condotta che motiva il licenziamento, sia l’ipotesi che la condotta sia stata effettivamente realizzata dal lavoratore, ma sia priva di antigiuridcità (cfr. ex multis Cass. Civ. Sez. Lav., sent. 10 febraio 2002 . n. 3076)

BREVE ANALISI

Innanzitutto bisogna rilevare come il caso riguardi un licenziamento intimato nel 2014, motivo per cui allo stesso era applicabile la vecchia formulazione dell’art. 2113 c.c. prima delle modifiche apportate all’art. 3 d.lg. 15 giugno 2015 n. 81.

In base alla nuova disciplina, la questione non si sarebbe posta dal momento che il nuovo art. 2113 c.c. prevede che il lavoratore possa essere adibito a mansioni di livello inferiore. É opportuno precisare, tuttavia, che l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore deve essere comunicato, a pena di nullità, per iscritto, condizione che nel caso di cui trattasi sembrerebbe non essere stata rispettata.

L’ordinanza in commento permette di fare il punto sul cd istituto dell’autotutela del lavoratore, ovvero quando quest’ultimo può legittimamente rifiutarsi di adempiere ad un ordine intimato dal datore di lavoro.

La cd autotutela del lavoratore è stata oggetto di approfondita analisi da parte della giurisprudenza nell’ipotesi di trasferimento del lavoratore.

Si era posto, infatti, il problema se il lavoratore, a fronte di un trasferimento ritenuto illegittimo, fosse comunque obbligato ad obbedire ed a trasferirsi oppure, anche senza un provvedimento del giudice che accertasse la nullità del trasferimento, potesse in prima battuta opporsi al trasferimento senza temere di essere licenziato per insubordinazione.

Come nell’ordinanza in commento, la giurisprudenza si era richiamata al contenuto dell’art. 1460 c.c alla luce della natura sinallagmatica del contratto di lavoro.

Il primo comma di tale articolo prevede che ciascuno dei contraenti possa rifiutarsi di adempiere se l’altro non adempie o non offre di adempiere la propria prestazione.

Un primo orientamento della Cassazione (cfr Cass. 24 luglio 2017, n. 18178) aveva ritenuto che “il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 c.c. determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio.”

Sulla base del presupposto che un atto nullo non produce effetti, in base a questo primo orientamento il lavoratore era sempre legittimato a rifiutare il trasferimento. Il corollario di questa interpretazione era che il licenziamento per giusta causa del lavoratore che si era rifiutato di cambiare sede lavorativa in base ad un trasferimento privo di ragioni giustificative fosse sempre illegittimo.

Tuttavia il secondo comma dell’art. 1460 c.c. prevede che una delle parti “non può rifiutarsi ad eseguire la propria prestazione se, avuto riguardo delle circostanze il rifiuto è contrario a buona fede”.

Sulla base del secondo comma dell’art. 1460 c.c. l’autotutela del lavoratore che si rifiuta di obbedire ad un trasferimento ordinatogli dal proprio datore deve essere analizzata caso per caso.

La Giurisprudenza più recente della Suprema Corte in tema di rifiuto del lavoratore ad obbedire al trasferimento ha limitato la legittimità di tale comportamento solamente se il trasferimento rechi un grave pregiudizio a danno del lavoratore stesso. Occorre quindi, così come previsto dall’art 1460 c.c. II comma, che vi sia un bilanciamento tra i diritti lesi del lavoratore (quindi esigenze di vita proprie e della famiglia) e gli interessi al trasferimento del datore di lavoro esemplificabili nel corretto funzionamento dell’organizzazione aziendale (Cass. sez. lav 11 maggio 2018, n. 11408).

Secondo l’orientamento più recente (Cass Ciz Sez. lav 10 gennaio 2019, n. 434) si può ritenere che l’autotutela applicata dal lavoratore sia legittima qualora concorrano le seguenti condizioni:

a) comportamento del datore di lavoro che non motiva il trasferimento anche a seguito di richiesta di chiarimenti da parte del lavoratore;

b) distanza dell’unità produttiva presso la quale il lavoratore viene trasferito, ad esempio se il trasferimento comporta la necessità di cambiare residenza in quanto non è possibile effettuare il cd “pendolarismo”;

c) il lavoratore comunica i motivi per i quali rifiuta il trasferimento e contestualmente si offre di continuare ad eseguire la propria prestazione lavorativa presso l’unità produttiva originaria.

In altri termini bisogna considerare, in base al dettato normativo dell’art. 1455 c.c., se “l’inadempimento” del datore di lavoro che ha trasferito illegittimamente il lavoratore ha scarsa importanza in relazione all’interesse di quest’ultimo di rimanere nel luogo di lavoro inizialmente indicato nel contratto.

L’ultimo orientamento qui esposto viene applicato anche in altri contesti nei quali può sussistere un comportamento in autotutela del lavoratore, come testimonia l’ordinanza in commento.

Per ulteriori informazioni sul tema rivolgersi all’Avv. Francesco Meiffret (info@studiolegalemeiffret.it, studiolegalemeiffret@gmail.com, cell 3398177244, tel 0184532708) e all’Avv. Giuliana Martelli (0184/503474 cell 3393915231, mail info@studiolegalemeiffret.it giuliana_martelli@libero.it)

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