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Tribunale di Genova sent. 21 novembre 2018: a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 8 novembre 2018, n. 194 anche nelle piccole imprese l’anzianità di servizio di servizio non è l’unico criterio di quantificazione dell’indennizzo nel caso di licenziamento illegittimo

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Com’è noto la sentenza della Corte Costituzionale dell’8 novembre 2018, n. 194 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 3 comma 1 del Dlgs 23/2015 limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Il campo di applicazione della norma dichiarata incostituzionale è il licenziamento illegittimo di lavoratori occupati all’interno di imprese che rispettano i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 l. 300/1970 commi 8 e 91 .

La sentenza qui sotto riportata è di particolare interesse perché, a quanto consta allo scrivente, è una delle prime, dopo la pronuncia dei Giudici di legittimità, ad affrontare la questione di quali parametri utilizzare nel determinare l’indennizzo per il licenziamento illegittimo nel caso in cui il lavoratore sia dipendente in un’impresa che non raggiunge i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 commi 8 e 9 l. 300/1970 e dopo l’entrata in vigore del Dlgs 23/2105.

Anche l’art. 9 del Dlgs 23/2015 che si occupa di regolamentare l’indennizzo nel caso di imprese di piccole dimensioni, proprio come l’art. 3, stabilisce che l’unico criterio matematico per quantificare l’indennizzo è l’anzianità di servizio, con le uniche differenze che nel caso delle piccole imprese l’aumento è di una sola mensilità per ogni anno di anzianità di servizio e sino ad un massimo di sei mensilità.

Rimandando ad un altro commento per una disamina più approfondita della sentenza della Corte Costituzionale (http://studiolegalemeiffret.it/corte-costituzionale-8-novembre-2018-n-193-e-incostituzionale-lindennizzo-previsto-dal-c-d-jobsc-act-per-i-licenziamenti-illegittimi-poiche-esclusivamente-parametrato-sullanzianita-di-servizio/), è sufficiente qui riportare che i Giudici di legittimità hanno ritenuto incostituzionale la parte dell’art. 3 comma 1 che prevede che l’indennizzo sia parametrato esclusivamente all’anzianità di servizio sulla base di due censure. La prima parte dal presupposto che l’unico criterio dell’anzianità di servizio non garantisce un risarcimento adeguato al lavoratore illegittimamente licenziato, in particolar modo se il destinatario del licenziamento illegittimo è un lavoratore di recente assunzione. Il Giudice, nei limiti stabiliti dal Legislatore, deve poter valutare l’entità del risarcimento.

La seconda obiezione è l’assenza di dissuasività della sanzione –anche in questo caso soprattutto per quanto riguarda i lavoratori con una ridotta anzianità di servizio- che comporterebbe il non pieno esercizio dei diritti del lavoratore durante il rapporto di lavoro dal momento che sarebbe agevole per il datore di lavoro “sbarazzarsi” del lavoratore che effettua rivendicazioni legittime sul posto di lavoro affrontando un costo minimo.

E’ del tutto evidente che anche nelle piccole imprese si presenta la medesima situazione censurata dalla Corte Costituzionale nelle imprese alle quali si applica l’art. 3 comma 1.

Per questo motivo, al fine di evitare un’applicazione dell’art. 9 in contrasto con la sentenza della Corte Costituzionale, il Giudice del lavoro del tribunale di Genova ritiene che anche nel caso di un licenziamento di un lavoratore impiegato in un’impresa che non raggiunge i requisiti dimensionali stabiliti dall’art. 18 commi 8 e 9, l’indennizzo non debba essere esclusivamente parametrato all’anzianità di servizio, bensì determinato anche mediante l’utilizzo di altri criteri, ovvero quelli indicati dall’art. 8 l. 604/1966 e dell’art. 18 comma 5 l. 300/1970 (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti).

Anche nel caso di licenziamento illegittimo all’interno di piccole imprese il Giudice deve, quindi, avere la possibilità di discrezionalmente determinare la sanzione rimanendo nella cornice sanzionatoria stabilità dal Legislatore (sino a sei mensilità) e motivando la sua quantificazione sulla scorta dei parametri forniti dagli articoli 8 l. 604/1966 e art. 18 comma 5 l. 300/1970

Attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 9 del Dlgs 23/2015 il Giudice del Tribunale di Genova giunge all’applicazione dei criteri indicati dalla sentenza 194/2018, operazione agevolata dal fatto che lo stesso art. 9 richiama l’art. 3 comma 1 oggetto di censura.

A sommesso parere dello scrivente è più che corretta il ragionamento giuridico effettuato dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Genova. Resta, tuttavia da chiedersi, se abbia ancora un senso una netta distinzione di buona parte delle tutele nel caso di licenziamento legittimo utilizzando come spartiacque il numero dei lavoratori subordinati impiegati in azienda. L’art. 300/1970 si basa su una realtà industriale superata, in cui la ricchezza e la produttività di un’impresa cresce più che esponenzialmente con l’aumentare dei suoi dipendenti. In un sistema produttivo come quello attuale basato sulla sua informatizzazione, con buona parte delle mansioni svolte da collaboratori autonomi, è possibile che un’impresa abbia un fatturato notevole con un limitatissimo numero di dipendenti. Non è, quindi, fantascienza o fantaeconomia ritenere che un’impresa con un organico inferiore rispetto ai limiti dei più volte richiamati commi 8 e 9 dell’art. 18 l. 300/1970 possa avere un fatturato di qualche milione di euro e che, quindi, possa sopportare, senza alcun minimo fastidio l’esborso economico di “liquidare” un dipendente con sei mensilità.

Posto che uno dei principi sanciti dalla sentenza di novembre 2018 della Corte Costituzionale, e riportato anche nella sentenza in commento, è che la sanzione eventualmente da comminarsi al datore di lavoro deve avere anche una funzione di deterrente dall’intimare licenziamenti illegittimi, pare chiaro che questo scopo possa dirsi totalmente disatteso di fronte a realtà economiche, che con un numero limitato di diependenti hanno un fatturato enorme grazie al quale l’esborso di sei mensilità equivale al costo di un caffè per una persona comune. Ed, infatti, non pare così irragionevole pensare di riconsiderare il discrimine tra grande e piccola impresa nell’ambito delle tutele di diritto del lavoro non ancorandolo più al numero dei lavoratori subordinati, bensì in base al fatturato dell’azienda, ipotesi già attuata in altre branche del diritto come nel diritto fallimentare ed, in ultimo, nell’applicazione della cd web tax.

1 Art. 18 l. 300/1970 commi 8 e 9: “8)Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

9) Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui all’ottavo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.”

 

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